ADAMO, Pietro. "La crisi dell’anarchismo e l’ethos liberale"
Sul pensiero di Luce Fabbri intervistata da Cristina Valenti su "A" 247
comunismoEconomia. Comunismo anarchicoRévolution soviétique de 1917Politica. JacobinismeproprietàFABBRI, Luce (Rome, Italy 25 July 1908- Montevideo 25 Aug. 2000)ADAMO, Pietro (1959-.... )Andare all’intervista da Cristina Valenti
Nel secondo dopoguerra l’anarchismo è andato incontro alla crisi decisiva, con un progressivo esaurirsi della sua presenza nell’immaginario occidentale. I pensatori e i militanti hanno reagito in modi diversi. In maggioranza si sono adeguati alle parole d’ordine della sinistra marxista, accettandone l’egemonia sul piano intellettuale e conformandosi alla sua visione manichea del mondo, sia pure con esplicite divergenze sul piano delle conclusioni. Un esempio rappresentativo di questo genere di atteggiamento lo troviamo in una delle donne «forti» del movimento, Maria Luisa Berneri, di cui fu pubblicata, nel 1952, una raccolta postuma di articoli. Il titolo del libro era Neither East nor West: l’autrice poneva sullo stesso identico piano l’Unione Sovietica, con i paesi del socialismo reale, e l’Occidente capitalista e liberale. L’idea portante era che entrambi i sistemi fossero egualmente e analogamente repressivi e inumani. Il fatto che il suo libro potesse esser pubblicato nel West, dove gli anarchici erano (relativamente) liberi di far propaganda culturale o di organizzare sindacati, mentre a East professarsi anarchico voleva dire prenotarsi un simpatico posto di villeggiatura coatta in Siberia, non toccava la sostanza del suo argomento. Il socialismo reale e il capitalismo reale erano due orrori; d’altro canto - e qui assumeva rilevanza l’influenza della sinistra istituzionale - per il socialismo "ideale" restava sempre un’ancora di salvezza.
Tra gli anarchici esistevano per fortuna anche altre tendenze - in Italia ben rappresentate, per esempio, dalla Volontà di Giovanna Berneri e Cesare Zaccaria - meno propense a condividere senza traumi l’immaginario comunistoide. Leggere i vari pamphlet pubblicati da Luce Fabbri in questo periodo è di fatto un’esperienza rinfrescante. Ai dogmatismi e alle certezze si sostituisce uno spirito critico e analitico, insoddisfatto della vulgata corrente, animato da una costante problematicità e da una prospettiva culturale non ristretta. Fedele alla radice socialista dell’anarchismo, la Fabbri è comunque capace di mettere in gioco questa stessa fede e di ridiscuterla nell’ambito di una riflessione che tiene conto di nuovi spunti, come l’ascesa della tecnocrazia e l’avvento del totalitarismo.
I suoi scritti mi sembrano dominati da un’esigenza primaria, descritta in L’anticomunismo, l’antiimperialismo e la pace (1949) (d’ora in avanti AAP) nel seguente modo:
"Logicamente facile e netta, la posizione di coloro che lottano per una vera libertà e una vera giustizia sociale, diventa difficile e quasi direi tragica in mezzo a quest’assurdo allinearsi di combattenti, in cui il totalitarismo stalinista eredita la funzione storica del nazi-fascismo" (p.42).
Per la Fabbri il tema del percorso possibile degli anarchici è centrale. In La strada (1952) (d’ora in avanti S) lo individua nel "socialismo antistatale" della linea bakuninista, che potrebbe tornare alla ribalta grazie alla rinnovata identificazione tra lo stato e "lo sfruttamento capitalista" (p.7). L’analisi è tutt’altro che semplicistica, e si inserisce in una concettualizzazione storica (stavo per scrivere "filosofia della storia") che, se da un lato soffre, come tutte le operazioni di questo genere, di un eccessivo schematismo nonché della pretesa di poter "indovinare" il futuro, dall’altro offre una serie di considerazioni intorno alla natura dell’anarchismo di indubbio valore e novità.
Tendenze statolatriche
Già nel secondo dopoguerra la Fabbri era giunta alla conclusione che la distinzione tradizionale tra destra e sinistra - che per esempio Norberto Bobbio ritiene ancor oggi valida - era superata. Non serviva a null’altro che "a coprire di fumo la strada verso l’avvenire". Con l’avvento dei totalitarismi, la militarizzazione dell’economia e il nuovo impeto dato alla "statalizzazione" dagli "adoratori" di Stalin, "l’equazione sinistra = trasformazione nel senso del progresso perde ogni significato discriminatorio". La divisione del mondo in due blocchi rischia di semplificare ingannevolmente la situazione. A parere della Fabbri la terminologia potrebbe essere ancora recuperata con l’attribuzione di nuovi significati: a destra fascisti e comunisti, uniti da un comune programma di "massima oppressione politica, massimo sfruttamento economico, monopolizzati tanto la prima quanto il secondo dallo stato e dalla sua casta burocratica"; al centro le "cosiddette democrazie occidentali", in costante pericolo di pendenza "verso destra"; a sinistra gli alfieri del socialismo antistatale, gli antifascisti, i pacifisti, in poche parole i libertari. Per arrivare a questa "esattezza di vocabolario" occorrerebbe però "porre in termini chiari il problema del socialismo e quello dello stato". "E ciò generalmente non si fa", conclude (AAP, pp. 4-7).
Agli inizi degli anni cinquanta l’obiettivo della Fabbri stava quindi nel ridisegnamento del vocabolario della politica. Nell’ambito di questa operazione offerse una serie di suggerimenti sulla natura dell’anarchismo stesso. Anche la riflessione su di esso subiva i nefasti effetti dell’ "innegabile influenza marxista su tutti i movimenti italiani (e, possiamo dire, europei)" [1]. Questa aveva prodotto, per quanto riguardava l’anarchismo (e gli anarchici), la sottovalutazione programmatica dell’eredità liberale. Il termine "liberalismo" aveva assunto una accezione "spregiativa" grazie all’azione congiunta dei marxisti e dei partiti conservatori che, "per il fatto di averlo sulla loro bandiera, se ne considerano proprietari" (MT, pp. 45-46). Al contrario, il modo migliore per intendere l’anarchismo era di considerarlo "alla confluenza di due linee evolutive, quella del liberalismo e quella del socialismo"(MT, p. 18). Accettando l’istanza egualitaria del secondo e l’insistenza sui principi della libertà e dell’autonomia del primo, le tendenze statolatriche presenti in entrambe le tradizioni si sarebbero neutralizzate a vicenda: "Tanto il liberalismo quanto il socialismo sono stati falsati, deviati dalla fame del potere: il liberale non ha vacillato a rendere schiavi gli uomini impadronendosi del loro pane; il socialista oggi tende alla tirannia politica attraverso la statizzazione della proprietà. La lotta tra il falso liberalismo (blocco occidentale) e il falso socialismo (blocco orientale) è una lotta nel vuoto" (S, p. 10).
Lo sforzo maggiore era ovviamente rivolto a chiarire il ruolo del liberalismo, sul quale sembravano esserci dubbi maggiori. Inserendosi nel solco delle elaborazioni liberalsocialiste, a loro volta eredi della distinzione crociana tra liberalismo come metodo e liberismo come politica economica, la Fabbri sostenne che il primo aveva "avuto solo applicazioni pratiche parziali e uno sviluppo tronco come dottrina" (S, p. 8). L’idea che esso, in quanto dottrina individualista, fosse la dottrina cardine del capitalismo era profondamente errata, e questo per due motivi. In primo luogo, "il capitalismo non è mai stato individualista" (S, p. 8); nella ricostruzione storica della Fabbri, il "preteso individualismo" dei capitani d’industria dell’Ottocento non era altro che "l’espressione del desiderio di limitare l’autorità dello stato in materia economica". Le prime battute d’arresto del capitalismo industriale spingeranno infatti i "padroni" verso cartelli e trusts, istituzioni che costituiscono in se stesse una palese negazione del cosiddetto individualismo originario. Di conseguenza il mondo imprenditoriale non si orienta affatto verso i valori dei "mercati e dei prezzi", ma piuttosto verso la tutela statale prima e verso il controllo diretto dello stato poi (MT, p. 25). Ed è questo il secondo motivo dell’inconciliabilità tra liberalismo e capitalismo: facendo tesoro dell’esperienza nazista, la Fabbri afferma che lo sviluppo più naturale del secondo lo porterà in altra direzione: i capitalisti "lasceranno cadere il loro liberalismo per conciliarsi con i nuovi regimi più o meno totalitari in formazione, che salvano la gerarchia sociale, creando una casta superiore e privilegiata di funzionari" (S, p. 9).
Federalismo libertario
Quale liberalismo, quindi? Un liberalismo di carattere soprattutto etico, incentrato in primo luogo"sulla difesa della personalità individuale" (MT, p. l9). Ed è proprio nello sviluppo di questo concetto che la Fabbri crede di scoprire il momento della confluenza con il socialismo. I liberali non sono riusciti a risolvere il problema reale del dominio dell’uomo sull’uomo, accontentandosi di una pura teoria della politica:
"la lotta per la libertà dell’uomo non può essere diretta solo contro la tirannia politica, ma deve essere combattuta nello stesso tempo contro il controllo della vita economica da parte d’una casta privilegiata, sia essa composta da capitalisti privati o dai burocrati dello stato proprietario" (S, p. 17).
In altri termini, il liberalismo - inteso come metodo di convivenza civile fondato sul libero sviluppo dei singoli - potrà dirsi compiuto quando avrà eliminato i presupposti del dominio economico: secondo la Fabbri, la libera impresa e la proprietà privata. – in questo senso che la tradizione liberale, nel suo momento più alto, non potrà che confluire nel socialismo, accettando l’idea di una proprietà socializzata e di una libera "associazione che moltiplica all’infinito le proiezioni dello sforzo individuale" (S, p. l3).
Questo percorso non è poi molto diverso da quello del liberalismo radicale alla Gobetti e del socialismo liberale alla Rosselli - esperienze sulle quali si sofferma con palese simpatia [2] - con la differenza che, laddove i due insistono sulla razionalizzazione da un lato, e la diminuzione dall’altro, del potere di intervento dello stato nella vita degli uomini, la Fabbri postula, seguendo da presso uno degli interlocutori anarchici privilegiati dei due "martiri", Camillo Berneri, un metodo liberale all’interno di una società senza stato basata sui principi del federalismo libertario.
L’equivoco sul liberalismo nasce storicamente dagli sviluppi ottocenteschi del conflitto tra la società borghese e il socialismo. Il "contenuto classista" dell’azione di riscossa dei movimenti operai non poteva non provocare un "urto" decisivo: ma "tale contenuto è, secondo me, circostanziale" (MT, p. 24), preciserà, accollandone la sopravvivenza soprattutto al perdurare dell’influenza marxista. Tra le due tradizioni restano comunque significative differenze. "Ci sono parole che sentiamo nostre come "socialismo"", scriverà nel 1955, e altre, come "liberalismo", "che stanno a significare solo una eredità da raccogliere e da continuare" (MT, p. 9). Il cuore di Luce è tutto dentro la tradizione socialista; ma non è difficile scorgere, all’interno dei suoi pamphlet scritti tra la fine dei Quaranta e l’inizio dei Cinquanta, un significativo slittamento di enfasi e tono. La frase sopra citata prosegue con un chiarimento: il liberalismo è
"una parentela più remota, che diventa importante ora, perché ci aiuta a combattere da un punto di vista attuale lo stato, dato che oggi capitalismo e assolutismo burocratico convergono" (MT, p. 9).
ln altre parole, è stata la riflessione sul ruolo e la portata del totalitarismo a portare la Fabbri a ciò che lei stessa ha descritto come "la valorizzazione della tradizione liberale" (MT, p. 8). In questo senso la sua riflessione giunge a cogliere con grande chiarezza ciò che molti anarchici del Novecento, presi nella rete della vulgata marxista, non hanno spesso compreso, cioè che l’anarchismo non è in sé l’antitesi del capitalismo, quanto piuttosto del totalitarismo:
"guardando al passato, vediamo che, facendo della libertà il centro delle loro aspirazioni, gli anarchici si sono trovati fin da principio sulle posizioni che sono oggi diametralmente opposte a quelle totalitarie" (MT, p. 46).
Il confronto con i regimi nazisti e comunisti ha sbalzato in primo piano ciò che i precedenti conflitti di matrice classista avevano occultato, rivelando la centralità dell’ethos liberale:
"il carattere liberale, in senso ampio, dell’anarchismo, risalta assai più oggi, alla luce dell’esperienza totalitaria" (MT, p. 46).
Riflessione incompiuta
Luce Fabbri ha quindi colto alcuni dei più importanti elementi dell’anarchismo contemporaneo. D’altro canto il suo schema interpretativo soffre di alcune rigidità, o, volendo usare i suoi termini, della presenza di "un groviglio di falsi idoli, di dilemmi artificiali, di assiomi accettati universalmente" (S, p. 26). Nel caso si tratta - mi pare - della fedeltà a oltranza al modello del comunismo libertario alla Kropotkin, con i suoi corollari dell’avversione verso la proprietà privata e l’insufficiente concettualizzazione degli effetti della cosiddetta" proprietà socializzata". Tuttavia, più che in una sorta di "idolatria" intellettuale, i limiti della proposta fabbriana - che considero ovviamente secondari rispetto agli evidenti pregi - mi sembrano fondarsi soprattutto su due elementi interrelati, il mito della perversione stalinista e una riflessione incompiuta sul totalitarismo. E’ usuale distinguere tra i momenti iniziali della rivoluzione bolscevica - i soviet, la socializzazione, la democrazia consiliare, eccetera - e le successive perversioni accentratrici del leninismo e dello stalinismo. Così facendo si perdono di vista le linee di continuità nel bolscevismo e la qualità giacobino-totalitaria del complesso della sua vicenda.– nei dogmi e nei fondamenti dell’ideologia marxista stessa che si annidano i germi dell’antiindividualismo radicale e della "società-massa": l’eliminazione della proprietà privata è solo una delle strategie di fondo del totalitarismo. Luce si è concentrata sugli effetti devastanti della proprietà privata nell’accezione capitalista del termine, proponendo di recidere il male alla radice. E tuttavia il nesso tra collettivizzazione e società totalitaria non è affatto unidirezionale, e neppure casuale.
In altri termini, la lezione del Novecento insegna non solo che il totalitarismo tende di fatto a" socializzare" la proprietà, ma anche che il livellamento della proprietà tende inesorabilmente a incoraggiare forme totalitarie di organizzazione della vita sociale. Trascurare questo elemento ha forse portato la Fabbri a sottovalutare altri elementi dell’ethos liberale - per esempio, una concettualizzazione garantista e "difensiva" della proprietà stessa - che potrebbero trovare una degna collocazione nell’anarchismo stesso.
Pietro Adamo
[1] Sotto la minaccia totalitaria, 1955, p. 13, d’ora in avanti MT
[2] AAP, p. 41, MT, pp. 29-30, 42, 44