EVA, Fabrizio. "Un approccio antropologico. Usare la geografia di Reclus per capire le dinamiche geopolitiche"

geografiaEVA, Fabrizio (Carrara, Italia 6 Junio 1949 - )

Rivista anarchica, anno 35 n. 310 (estate 2005)

Ancora oggi geografi di nome dedicano tempo e attenzione alla rilettura degli scritti di Friedrich Ratzel, per cercare di dimostrare la sua attualità o il suo essere “anticipatore”. E invece è necessario “deratzelizzare” l’immaginario della geografia politica (e delle Relazioni Internazionali); per farlo bisogna sostenere una visione/interpretazione alternativa degli elementi che compongono la cosiddetta triade ratzeliana e cioè suolo/confini, popolo, struttura politica, che costituiscono i fattori dinamici dello stato come lo concepiva lui. Nella concezione di Ratzel i confini sono necessari per identificare con certezza (cioè ingabbiare) lo spazio (il suolo); però il concetto di popolo è ambiguo perché non chiarisce la questione centrale della sua omogeneità e la sovranità appare come il generico esercizio del potere su uno spazio determinato, senza precisione circa chi e come esercita il potere. La sovranità sembra molto simile, nei modi e nei principi, all’esercizio del potere negli spazi di proprietà privata. Il confine segna uno spazio occupato su cui si vantano diritti di proprietà.
Una visione alternativa c’è, proprio dai tempi di Ratzel. È stata elaborata da Elisée Reclus e non ha mai preteso di essere un metodo scientifico; probabilmente proprio per questo non ha avuto successo nell’accademia e tra gli uomini di potere.
I punti concettuali nodali del modo di essere geografo di Reclus sono i seguenti:

1. i confini devono essere concepiti come mobili perché sono solo temporaneamente funzionali. Quando cambia la funzione o cambiano le scelte dei gruppi umani, i confini si spostano per adeguarsi alle nuove funzionalità;
2. gli unici confini da considerare sono quelli che segnano le differenziazioni di abitudini, di comportamenti e di caratteristiche dei gruppi umani; “terra, clima, organizzazione del lavoro, tipo di alimentazione, razza, parentela, modi di raggruppamento sociale” costituiscono il genere di vita (genre de vie), che con storia e lingua ha, per Reclus, un ruolo molto rilevante nella formazione e nelle dinamiche dei gruppi umani;
3. bisogna rendere più libero possibile il movimento di idee e persone;
4. l’individuo deve essere libero, ma non è solo. Solidarietà e fratellanza sono i principi delle relazioni tra gli essere umani, che portano alla cooperazione e allo scambio;
5. la libera volontà dell’individuo è il motore primo delle dinamiche sociali.

Ne deriva la consapevolezza che le abitudini si formano e si cambiano, per cui bisogna contrastare la tendenza o la volontà di cristallizzarle in identità/etnie/popoli/valori, soprattutto se riferiti a storie mitiche del passato o a origini religiose.
Lascito metodologico rilevante
L’abbinamento della centralità dell’individuo con la concezione dello spazio derivante dall’identificazione dei gruppi umani secondo il loro genere di vita costituisce il lascito metodologico più rilevante di Reclus. Quelle che perfino lui era giunto a definire “leggi” (solo nel senso della loro alta frequenza di casi) erano:

1. la tendenza dei gruppi umani a strutturarsi secondo gerarchie (a causa delle diseguaglianze);
2. la spinta insopprimibile alla libertà da parte dell’individuo che non accetta l’ingiustizia;
3. il meccanismo di continua oscillazione/bilanciamento tra queste due tendenze contrastanti.

Bisogna considerare gli esseri umani come realmente sono e non immaginarli come esseri “teorici”. Una delle caratteristiche degli individui è che chiedono tempo per assimilare i cambiamenti, anche se ci si abitua velocemente alle novità comode o liberatorie. Un modo più contemporaneo di concepire la “rivoluzione” significa imprimere continue sollecitazioni al cambiamento nelle relazioni sociali piuttosto che puntare ad una insurrezione che solo in superficie le cambi rapidamente.
Le vicende storiche hanno mostrato che da parte dei gruppi umani il grado di sopportabilità di condizioni politiche ed economiche negative è generalmente alto e questo anche perché la resistenza psicologica al cambiamento è sempre elevata, soprattutto nei gruppi ad “identità forte” cui si può fare riferimento nei momenti difficili.
Le identità forti derivano da vicende storiche, da caratteri culturali casuali, ma anche dall’opera di sollecitazione o pacificazione delle emozioni esercitato da rappresentazioni e simboli che rispondono alle paure e/o alla psicologia degli esseri umani. Etnia e identità, nazionalismo, xenofobia, sono costruiti socialmente e sono fattori geopolitici forti e diffusi perché fanno riferimento alle caratteristiche della psicologia umana.
Una di queste è la paura del non conosciuto, e quindi del diverso.
Le motivazioni dei singoli in favore dei confini e delle identità derivano dal desiderio di non avere paura e da qui deriva la spinta:

1. a voler stare in un territorio conosciuto perché si pensa di poter vivere bene (o sopravvivere) solo lì. La non conoscenza di altri luoghi e di altre abitudini rafforza questo convincimento;
2. a voler stare con persone conosciute o che si immaginano solidali, perché si presume che chi parla lo stesso linguaggio o ha le stesse abitudini non sia pericoloso (o lo sia meno degli sconosciuti).

Queste dinamiche psicologiche vengono spesso usate da singoli e/o gruppi (intesi come soggetti politici e/o classi sociali) per conquistare o mantenere il potere. Affermare come un a priori il mito etnico-identitario favorisce la sensazione di protezione e “non paura” e fa accettare o dà senso alla disuguaglianza esistente.
Visioni decisamente diverse
Se si vuole essere geografi critici le sollecitazioni di Reclus indicano che bisogna “leggere” i gruppi umani senza una esclusiva appartenenza ai luoghi e quindi “leggere” i luoghi senza farsi ingannare dalle rappresentazioni e/o dalle sovrastrutture istituzionali.
Questo pur tenendo conto che le diverse culture si sviluppano e cambiano in riferimento a luoghi precisi e in base anche alle caratteristiche di tali luoghi.
L’attivismo politico deve puntare a comunità che non abbiano rivendicazioni di identità collettive rigide e riferite a spazi esclusivi, oppure a territori miticamente conquistati o “attribuiti” dal destino, o da dio.
Si deve puntare ad appartenenze senza rappresentazione collettiva e cioè intendere il collettivo come una dinamica e mutevole somma delle rappresentazioni individuali.
Questo significa moltiplicare i confini in senso funzionale, perché perdano qualunque significato sacrale e possano essere spostati per seguire i cambiamenti. Appartengono a questo ambito concettuale anche le appartenenze multiple e i piani decisionali sovrapposti.
I confini impermeabili possono servire temporaneamente o funzionalmente quando c’è incomprensione, e possono servire anche per poter vivere la propria diversità; però sono limiti difensivi e non espansivi, perché lo spazio dovrebbe essere prevalentemente “pubblico”, perché quello è lo spazio della libertà e della negoziazione, dell’incontro, dello scambio e della cooperazione.
Reclus considerava come prioritari i comportamenti degli individui (liberi) e quindi vedeva la “democrazia” come una/molte comunità che praticano relazioni egualitarie e che sono disponibili al cambiamento perché questo produce molte idee, molte novità e la collaborazione/negoziazione necessaria per… un reale progresso umano, qualunque forma esso possa prendere in futuro da queste condizioni di partenza.
Oggi l’approccio di Reclus verrebbe definito di tipo antropologico e “leggere” le attuali dinamiche geopolitiche mondiale con la sua ottica porta a visioni decisamente diverse da quella di chi si accontenta di una democrazia formale e la “esporta” con gli eserciti.