"Vivendo la mia vita". Intervista a Luce Fabbri di Cristina Valenti. (1° Parte)

Pubblicata originalmente in "A. Rivista anarchica", Anno 28 (estate 1998) n. 247

UruguayMALATESTA, Errico (1853-1932)BERNERI, Camillo (Lodi, Lombardia, Italia 20-5-1897-assassinato dai communisti il 5-5-1937).Italia. Storia dell’anarchismo. NovocentoFABBRI, Luigi (1877-1935). Journaliste. - Penseur politiquefascismo e antifascismoFABBRI, Luce (Rome, Italy 25 July 1908- Montevideo 25 Aug. 2000)VALENTI, Cristina

Il 25 luglio compie 90 anni Luce Fabbri, da oltre sessant’anni residente in Uruguay. Anarchica, insegnante, militante nelle alterne vicende del movimento non solo sudamericano, donna di cultura e saggista, rappresenta un punto di riferimento sicuro per un pensiero ed un’azione che affondino sì le radici nella parte migliore della tradizione anarchica, ma non rinuncino a confrontarsi con le grandi questioni che all’umanità si pongono alle soglie del nuovo millennio con spirito critico, senza rigidità dogmatiche, con orgoglio ma anche con la necessaria umiltà.

Come e quando hai fatto tue le idee anarchiche? C’è stato un momento in cui ti sei definita anarchica oppure ti sei sempre ritenuta tale? E se c’è stato un momento in cui hai compreso di essere anarchica come è avvenuto, per quale motivo?
Sono figlia di un anarchico. Sono figlia di un anarchico e sono stata educata con criteri libertari. Respiravo la libertà in famiglia, la libertà in senso nostro. Sapevo fin da bambina che mio padre era anarchico. Ho passato due anni dai nonni, dai quattro ai sei anni, non conoscevo quel termine, ma sapevo che mio padre era un ribelle. Abitavamo a Porta Pia dove passavano le sfilate militari. Mi piaceva molto la musica militare e ogni volta andavo alla finestra entusiasta; ma poi provavo dei rimorsi perché sapevo che a mio padre quella musica non poteva piacere: questo vuol dire che avevo già qualche cosa nella testa. Quando sono tornata in famiglia a sei anni, ben presto ho cominciato a dire "Io sono anarchica" ma mio padre mi diceva "Ti sbagli, lo dici perché sai che io sono anarchico e che quelle sono le mie idee, ma questo non vuol dir nulla per te. Quello che penso io non prova niente, perché la maggioranza della gente la pensa in modo diverso; quando sarai più matura, ci ripenserai e deciderai. Ma devi giudicare con la tua testa non con la mia". Ed evitava di portarmi ai comizi, sostenendo che i bambini devono esserne tenuti fuori e liberi da influenze tanto determinate.
Naturalmente questo ha influito in senso libertario e sono rimasta zitta per parecchio tempo cercando di pensare con la mia testa a quanto diceva mio padre, però, arrivavo sempre alle stesse conclusioni. Quello che ha influito moltissimo e che penso sia stato il vero punto di partenza del mio anarchismo fu la prima guerra mondiale. M’ha veramente impressionato, in modo profondo, perché avevamo molti amici al fronte e tanti di loro passavano da noi quando partivano, è passato Berneri quando è stato richiamato, sono passati alcuni fuggiaschi dopo Caporetto, venivano a trovarci i disertori.
L’atmosfera della guerra l’ho sentita molto, a parte che si è avvertito anche il bombardamento di Ferrara, soprattutto quando il fronte si era avvicinato dopo la sconfitta. I racconti che ascoltavo m’impressionavano molto ma soprattutto mi indignava il fatto che ci fosse un potere capace di obbligare una persona non solo a farsi ammazzare, ma ad ammazzare. Mi sembrava inconcepibile che ci fosse qualcuno che potesse dire ad un altro "ammazza uno che non ti ha mai fatto niente altrimenti ti fucilo". Quella è stata una cosa che m’ha veramente colpita, ho pianto e ricordo che di notte mordevo il cuscino dalla rabbia. È stata una scossa molto forte dal punto di vista morale e credo che il mio anarchismo parta da lì, mi pare che sia quello il punto di partenza. Comunque è molto, molto difficile dare delle precedenze, perché tutto riportava a quello: l’atmosfera famigliare, l’educazione, il fatto che non mi si dicesse mai "Ubbidisci!", ma che mi si dessero consigli a pensarci bene: "Decidi tu, ma prima considera questo, quest’altro e quell’altro". Quindi finivo regolarmente con il lasciarmi convincere.

Tutti noi conosciamo tuo padre ma non tua madre. Condivideva anch’essa le idee anarchiche?
Non del tutto. Non è mai stata completamente convinta, forse era un po’ più scettica, tendeva a pensare che la perfezione non è di questo mondo e che le illusioni erano molte. Non interveniva spesso però aiutava mio padre. L’ha sempre aiutato nella spedizione dei giornali, gli era molto vicina ma sempre con un certo scetticismo. Ricordo anche quel che mi raccontava mio padre, del periodo in cui non sono stata in famiglia, quando ci fu la Settimana Rossa; mio padre mi raccontava che se gli capitava di addormentarsi, la mamma lo svegliava raccomandandogli: "Guarda, scendi in piazza perché là è il tuo dovere". Quindi l’ha sempre appoggiato, non l’ha mai trattenuto, anche se ciò poteva danneggiare la quiete e gli interessi famigliari. Però non sempre, non in certi casi. Ricordo ad esempio quando Malatesta gli propose di lasciare l’insegnamento per andare a lavorare ad "Umanità Nova" e mia madre gli disse di non farlo. Malatesta ci pensò su un po’ e poi disse "Tua moglie ha ragione".
Comunque non ha mai creato problemi il fatto che tua mamma non fosse militante?
Mai, mai. Non solo, ma l’ha sempre aiutato. Le spedizioni di tutte le pubblicazioni di mio padre le ha sempre fatte lei. Poi gli teneva i registri della scuola e scriveva i titoli delle pagelle, perché anche lei aveva studiato e aveva una bella calligrafia gotica. Tutte le pratiche burocratiche inerenti alla sua professione di maestro le svolgeva la mamma, permettendogli in tal modo di fare le altre cose. Babbo si alzava alle quattro del mattino e cominciava a scrivere degli articoli, poi alle otto usciva per andare a scuola. La mamma è stata davvero una grande collaboratrice e si è avvicinata sempre più alle nostre idee. Dopo la morte del babbo ci è stata ancora più vicino e negli u ltimi tempi era assolutamente con me, anche se non ha mai detto di essere anarchica.
Lei non lavorava?
No. Ha lavorato fino a prima di sposarsi, dava lezioni di ricamo in seta ed oro, di fiori artificiali. Aveva una certa tendenza artistica. Mi ricordo che aveva fatto un Giordano Bruno in pirografia, su un panno che stava sul letto matrimoniale: invece del santo c’era Giordano Bruno.
Quindi il tuo modello famigliare è stato più tuo padre che non tua madre?
No, tutti e due! Perché libertari lo erano entrambi: l’educazione era la stessa. Quello che a mia madre non piaceva era la violenza, non era molto convinta che l’insurrezione fosse il mezzo più normale per arrivare ad una società libera. Ma per il resto credo che probabilmente sarebbe stata insieme a noi.
Della tua permanenza in Italia fino al ’28, prima di andare in Uruguay, che cosa ricordi? Com’era la situazione, del movimento in generale e la tua in particolare? Che problemi avevi, che prospettive vedevi per il futuro?
Fino al ’26 c’è stato mio padre. Fintanto che ha potuto, è uscito "Pensiero e Volontà" dove ho scritto il mio primo articolo, con lo pseudonimo di Epicari. Ricordo che lo scrissi in polemica con Malatesta che aveva affermato che l’anarchia non ha niente a che vedere con la filosofia. Io, che in quel momento frequentavo l’Università, mi sono ribellata e ho voluto dimostrare che l’anarchia era una filosofia. Dopo il 1926 sono rimasta sola, mio fratello è andato a lavorare a Roma e io sono rimasta a Bologna in ambienti socialisti. Ero a casa di un amico socialista turatiano, Enrico Bassi che rimase sempre a Bologna e che poi mi pare che abbia avuto un qualche incarico nel comune dopo la liberazione. Gli ho voluto molto bene, a lui e a tutta la sua famiglia. Per il resto non avevo altri contatti con il movimento e allora li cercavo nell’ambito studentesco, anche insieme a Venturini, ma eravamo tutti molto isolati.. Ricordo Da Vinchie, un socialista che m’ha presentato una studentessa antifascista; insieme a lei avevamo pensato che si dovesse fare qualche cosa, però poi non abbiamo fatto niente. Penso che fosse una situazione generale che riguardava tutti o quasi tutti in quegli anni. Si era dopo il ’26, dopo l’attentato di Zamboni, c’era veramente un’atmosfera di terrore, a Bologna mi vigilavano anche la corrispondenza .
E non c’era nessuna forma di coordinamento?
Nessuna. Assolutamente nessuna. Ricordo che se all’Università qualcuno cominciava a fare un discorso antifascista, fra gli studenti si faceva il più assoluto silenzio, perché lo consideravano un provocatore. Pensavano che fosse una spia in cerca di informazioni, quindi se qualcuno iniziava a parlare contro il fascismo, tutti gli altri zitti. Mi ricordo anche che una mattina abbiamo trovato il ritratto del Duce con sopra delle scritte offensive, cose del genere. Però quando ho discusso la tesi di laurea, ho scoperto che c’erano anche degli antifascisti; non erano compagni anarchici, probabilmente erano comunisti o giellisti, ci siamo conosciuti quella sera. Allora era Preside della facoltà di lettere Ducati, che fu poi fucilato dopo la Liberazione. Mi ha addirittura dato la mano davanti al pubblico, perché lui era fatto così. Non so se anche oggi la seduta di laurea si svolga in quel modo, ma allora era terrificante perché ci si sedeva in un tavolino un po’ più piccolo, poi c’erano undici professori disposti a ferro di cava llo e dietro il pubblico. Mi tremavano le gambe, mi tremava perfino la mandibola. Ma poi, quando Ducati ha fatto quel gesto e io gli ho risposto, si è stabilita una tensione come di lotta politica, e questo mi ha fatto talmente bene che mi sono tranquillizzata. Avevo fatto la tesi su Reclus e Ducati m’ha attaccato accusandomi di aver fatto una te si comunista perché parlavo della Comune di Parigi, cosicché quando ho cominciato a parlare, mi sono messa a spiegare che quella comunità non aveva niente a che fare con il comunismo bolscevico. "Basta, basta di questo non si parla più". Beh, insomma! Allora ho discusso la tesi e mi ha dato 110. Fra i professori presenti c’era Mondolfo, che è stato quasi un secondo padre per me in quei due anni che ero rimasta sola, e c’era Supino, di Storia dell’arte, che m’ha dimostrato, non prima ma dopo, molta simpatia. Mi hanno raccontato che loro volevano darmi 110 e lode ma che Ducati si era opposto dicendo: "No, la lode no, questa è una comunista". Questa è la storia. E quando sono tornata a casa era già sera inoltrata, così che m’hanno accompagnata a casa una ventina di studenti. È stato allora che ho scoperto che c’erano molti antifascisti fra loro, anche se non si sapeva. Non lo sapevamo, ma eravamo almeno tre o quattro antifascisti. Infatti poi ho saputo che il tale era stato in prigione, il talaltro pure e così via. Comunque quella è stata una sera di grande allegria, e il giorno dopo sono partita.
Oltre il confine
Sei partita subito per l’Uruguay?
No, sono andata a Roma mentre mio padre mi preparava il passaggio della frontiera. Vi sono rimasta una ventina di giorni, dalla fine di ottobre fino a metà novembre circa.
Tuo padre dov’era?
Era già a Parigi. Aveva passato il confine nel 1926 mentre mia madre era fuoriuscita nel 1927, a piedi e tutti due clandestinamente. Tutta la mia famiglia, anche mio fratello, era sulla lista di frontiera, ossia da arrestare se ci avessero trovato a varcare il confine. Quella lista poi cadde in mano a Libera Stampa che la pubblicò. Mio padre è passato a piedi e Maria Rossi Molaschi mi raccontò che l’accompagnarono lei e Cesare Molaschi fino a un certo punto dove avrebbe dovuto trovarsi un altro compagno che invece non si presentò. Pertanto dovettero pagare un contrabbandiere che gli fece strada fino ad un certo tratto, ma poi lo lasciò proseguire da solo, limitandosi ad indicargli il tragitto. Babbo è arrivato con la febbre perché non aveva mai fatto della montagna.
C’era una buona organizzazione clandestina preposta a queste cose o era tutto improvvisato?
No, non era improvvisato. Quando passai da Milano andai a trovare un cugino di mio padre, un socialista che si chiamava Luigi Fabbri anche lui, il quale mi disse "Ma ve’ che buona organizzazione avete voialtri, se l’avessimo noi!" Io invece sono passata assieme a Peretti, un compagno di Bellinzona, che è riuscito a far espatriare molte compagne registrandole tutte sul suo passaporto come se fossero sua moglie. Ogni volta cambiava la fotografia mettendocene un’altra e ci scriveva: Maria Letteri in Peretti. Si è presentato in casa di questo mio cugino dicendomi: "Signorina, sono suo marito". Si è un po’ incoscienti a quell’età, ma mi sono divertita moltissimo: avevo vent’anni ed è stato uno dei giorni più divertenti della mia vita quello del passaggio della frontiera.
Avresti mai detto, varcando la frontiera, che saresti rimasta tanti anni all’estero? Che prospettive avevi?
Pensavo di espatriare per andare da mio padre e che poi saremmo tornati tutti insieme quando fosse caduto il fascismo. Eravamo tutti convinti che il fascismo sarebbe caduto, insomma non pensavo che sarebbe durato tanto tempo. Anche a Parigi ho visto che tutti avevano le valigie pronte per rientrare, compreso l’ex ministro Nitti. Forse era più la speranza che non la riflessione a farci comportare così. Si voleva ritornare. Era tutto in funzione di quello.
Quando arrivaste in Uruguay vi appoggiaste agli altri anarchici italiani per risolvere le prime difficoltà?
Certamente, anche se gli italiani non erano molti come in Argentina, però ce ne erano ed entrammo subito in contatto con loro. Nei primi tempi siamo stati in casa di Moscallegra. Era un compagno fiorentino che in realtà si chiamava Aratari ed era molto compromesso nei fatti di Firenze. Siamo stati un mese a casa sua mentre cercavo casa. Ero io che me ne occupavo perché all’Università avevo seguito un corso di spagnolo antico. Era comico perché tutto lo spagnolo che sapevo era quello del Cantare del Cid del secolo XII.
Una volta arrivata a Montevideo qual è stata la tua attività?
Ho cominciato a fare lezioni private di italiano, di latino e di greco quindi mi sono presentata a un concorso per l’insegnamento di storia (perché per la letteratura ci voleva una conoscenza dello spagnolo che non avevo ancora), e sono entrata alle secondarie come professoressa di questa materia. Quando successivamente è stata istituita la facoltà di lettere, mi hanno chiamata come lettrice di italiano. Così ho sempre insegnato. Ho sessant’anni di insegnamento.
Avete trovato problemi di integrazione in questa nuova società?
No. Era una società cordialissima, molto accogliente, di sentimenti antifascisti. L’atmosfera era quella tipica d’una democrazia molto avanzata. Ci siamo trovati molto bene. La mamma diceva che a Parigi non si era trovata molto bene, ma che a Montevideo le sembrò di essere tornata a Roma. Fu il babbo quello che ha sofferto di più perché gli mancava la biblioteca e ha patito molto l’esilio, a lui l’Italia è davvero mancata molto. Anch’io avevo nostalgia, però non quanto lui. Appena arrivato ha dato qualche lezione privata e poi scriveva ne "La Protesta", dove curava la pagina in lingua italiana, ha lavorato come giornalista, faceva delle pubblicazioni. C’era "La Pluma", una rivista importante diretta da Orsini Bertani, un anarcobagista che gli ha pubblicato vari articoli,... beh, quella è un’altra storia. Fino al settembre del ’30 ha vissuto così, più che altro come giornalista. Poi c’è stato il colpo di Stato di Uriburu in Argentina e la fonte argentina si è chiusa per cui ci siamo trovati piuttosto male. Nel frattempo i o facevo qualche traduzione e lezioni private, lavoravo così. Invece babbo, pur non essendolo, ha esercitato anche le funzioni di direttore nella scuola italiana di Montevideo, durante il periodo in cui questa era ancora controllata dalle società italiane, alcune delle quali prettamente antifasciste. Era una scuola indipendente finché il fascismo non si impadronì anche della scuola promettendo quelle sovvenzioni di cui c’era urgente bisogno. Fu allora che il babbo cominciò a pensare di andarsene. E quando è arrivato Parini, che era il Capo degli Italiani all’Estero, lui non si recò a riceverlo e così ha fatto l’ultima ed è rimasto senza una cattedra per la seconda volta. Dopo si è messo a vendere libri, a fare il piccolo libraio, andava in giro con la cartella con i libri, ha fatto ancora un po’ di giornalismo mentre io sono entrata nelle secondarie e mi sono preparata per un concorso. In ogni modo, fino alla sua morte, la vita è stata abbastanza penosa. Si stava molto bene invece dal punto di vista politico, anche se l’ Uruguay era un paese molto povero, è ancora un paese molto povero. Tutti ci dicevano di andare in Argentina in quel primo anno, ma poi lì venne la dittatura ed allora c’erano molti rifugiati argentini nell’Uruguay, Diego Abad de Santillán, per esempio è stato per un certo periodo nell’Uruguay, e quasi tutti i compagni più in vista dell’Argentina o erano in prigione o stavano in Uruguay.
Che tipo di attività politica hai fatto a Montevideo, dopo il vostro arrivo?
In un primo periodo frequentavo i sindacati, perché in Uruguay era più che mai aperta la questione dell’anarcosindacalismo, l’anarchismo era molto aratterizzato in senso anarcosindacalista, ed era ben radicato nella organizzazione sindacale. In seguito però i sindacati hanno perso forza e i comunisti si sono impadroniti del movimento, per cui successivamente i gruppi di affinità ideologica hanno preso il sopravvento. Comunque, tanto per fare un esempio, le prime lezioni di spagnolo le abbiamo prese nel sindacato dei panaderos dove c’era un rifugiato cileno che dava lezione di spagnolo agli operai. Io accompagnavo il babbo e l’aiutavo nel lavoro della rivista, ma in effetti mi sono occupata principalmente dell’aspetto sussistenza famigliare, e cercavo lezioni private. Facevo parte di un gruppo femminile, poi di un gruppo della gioventù libertaria formato soprattutto da studenti, ci riunivamo in un sottoscala. Quando fu indetto dai comunisti un congresso contro la guerra del Chaco, nacque un po’ di parapiglia ed abbiamo discusso in un modo davvero un po’ strano. Anche mio padre partecipò a quel congresso, così come dei compagni argentini. Ci eravamo preparati per parlare sul tema ell’antimilitarismo e invece i comunisti volevano farne uno strumento contro l’aprismo nel Perù e il bagismo nell’Uruguay, cioè contro i partiti democratico-borghesi. E un po’ anche contro i socialisti, e un po’ anche contro gli anarchici. Non hanno potuto impedirci di partecipare, però erano quasi tutti comunisti, due trotzkisti e una trentina d’anarchici. C’era Simon Radowitzky, non so se lo conoscete, aveva compiuto un attentato contro Falcon e aveva fatto venti anni di Guaire, un tremendo bagno penale dell’Argentina, poi era stato liberato, graziato e s’era rifugiato in Uruguay. Un amico, un amico caro è stato. C’era anche lui a questo congresso, l’hanno molto adulato, l’hanno messo su un palco, lo volevano nominare non so che cosa del congresso ma lui si è rifiutato. Infine ce ne siamo andati via perché non ci lasciavano parlare, ci siamo ritirati in massa e si è ritirato anche lui, ma la cosa più bella è che si sono allontanati anche moltissimi studenti, che erano comunisti ma che hanno preferito andarsene insieme a noi. Fu per noi un importante momento di propaganda quel congresso antimilitarista. Bene, per tornare alla tua domanda, che come vedi non ha avuto una risposta filata, cercavo di guadagnarmi la vita e quando potevo partecipavo all’attività di questo gruppo giovanile e nel comitato contro la dittatura in America, che era stato formato dagli argentini arrivati nell’Uruguay dopo l’avvento della dittatura di Uriburu. Sempre insieme a babbo, finché c’è stato babbo...
Il gruppo femminile di cui dicevi era un gruppo anarchico? Ricordi in particolare delle personalità di rilievo?
Era un gruppo anarchico ed era formato da persone modeste, una mi è ancora molto amica, vive tuttora in Argentina col figlio. A un certo punto fu arrestata ed ha passato dei brutti momenti, il padre era militante. Comunque non c’erano personalità di gran rilievo, si faceva la solita attività e si è dato vita ad alcune iniziative per raccogliere del denaro a favore del comitato per le vittime politiche. A proposito, questo comitato in Uruguay non si sarebbe mai chiamato "per le vittime politiche", perché la parola politica era un termine proscritto nel Sud America: noi non appartenevamo al campo politico, il nostro era il campo sociale.
Affrontavate delle tematiche specifiche da un punto di vista femminile, all’interno del pensiero anarchico?
Allora no. Non so perché ci fosse proprio questo gruppo femminile, comunque in massima parte si occupava dei detenuti politici, dei carcerati. Io mi ci avvicinai perché ne facevano parte le figlie di un compagno che conoscemmo il giorno stesso in cui siamo sbarcati. In un certo senso fu un po’ un fatto di circostanza. Sicuramente comunque non aveva alcuna connotazione femminista e a dire il vero io non ho avuto contatti con il femminismo se non in questi ultimi tempi.
Fora, Foru ecc.

Quindi all’interno del movimento anarchico dell’emigrazione avevate rapporti con svariate situazioni. Era variegato questo movimento?
Si, e mio padre ha rappresentato una funzione particolarissima di pacificatore, quando è arrivato, perché esistevano parecchie divisioni. Da una parte stavano gli anarco-sindacalisti che sostenevano che al di fuori del sindacato non c’era nessuna possibilità di lotta, che i gruppi anarchici non avevano ragione d’esistere e che bisognava organizzarsi solo all’interno dei sindacati perché se non si era dei lavoratori era inutile impicciarsi. Dall’altra parte c’erano i sostenitori della necessità del gruppo ideologico, specifico, che non fosse orientato solo verso la lotta sindacale. Questo era uno dei motivi di dissenso. L’altro motivo, molto più radicale, anche se quando siamo arrivat i noi si era già un po’ attenuato, era l’atteggiamento da tenere nei confronti della rivoluzione russa. Come dappertutto, inizialmente aveva provocato parecchie divisioni all’interno del movimento e siccome in Uruguay l’anarchismo aveva quasi il monopolio del movimento sindacale, aveva diviso il movimento sindacale. C’era la FORU, la Federaciòn Obrera Regional Uruguasa, simile alla FORA argentina, e in contrapposizione ad essa e al suo antibolscevismo, era stata fondata la USU, Union Sindical Uruguasa. Questa era entrata a far parte, mi pare agli inizi del ’18, della Terza Internazionale, trascinando con sé eccellenti militanti. Costoro poi ebbero a ricredersi ed erano riconfluiti nel movimento anarchico proprio quando arrivammo noi. Credo che mio padre abbia influito molto su questo riavvicinamento.
Queste divisioni riguardavano tutto il movimento anarchico o solo quello di lingua spagnola?
No. Io parlo solo del movimento locale. Il movimento di lingua italiana allora era composto di poche persone e tutta la sua attività si concentrava nella lotta antifascista. Facevamo riunioni anche a Buenos Aires perché lì c’era un gruppo nutrito di anarchici italiani, mentre a Montevideo eravamo in pochi.
Con gli argentini avevate rapporti costanti?
Molto frequenti, perché la sera si prendeva la nave per andare a Buenos Aires e si arrivava alla mattina. Era quasi come prendere l’omnibus. Si diceva, "Beh, andiamo a Buenos Aires e torniamo dopodomani". Dopo il colpo di stato di Uriburu però era diventato tutto più difficile. Comunque i compagni dell’Argentina vennero subito a ricevere mio padre. Ricordo che Santillán e Fontana vennero pochi giorni dopo il nostro arrivo. Io mi sono avvicinata al locale movimento giovanile fin dal primo momento, mentre mio padre teneva soprattutto i contatti con gli italiani. Ha preso subito la casella postale e ha cominciato a pensare sia a "Studi Sociali", la rivista a cui poi avrebbe dato vita, sia alla pagina italiana de "La Protesta". Contemporaneamente ha cominciato a prendere contatti con i compagni del posto che lo venivano a trovare, anche se c’è voluto del tempo prima che cominciasse a parlare lo spagnolo. Si facevano delle riunioni, ma lui si occupava più che altro del movimento internazionale, scriveva continuamente delle lettere mantenendo contatti con il Nord America e con la Francia. Anche con Malatesta rimase in contatto fino alla fine. Arrivavano lettere con enormi ritardi, perché gliele aprivano. Comunque Malatesta aveva una buona precauzione, infatti il più delle volte scriveva: "...la prossima volta ti parlerò di..." e poi ci metteva qualche cosa di interessante per la prossima volta così la lettera riusciva ad arrivare. "...rispondimi su questo che poi io ti dirò ...". Era il modo di far arrivare la lettera, no?
Parliamo ora del colpo di stato di Uriburu nel 1930. Come si comportarono in quella occasione la FORA e il movimento anarchico argentino e cosa pensavi che avrebbero dovuto fare gli anarchici?
È una cosa che ho già detto tante volte. La FORA si è sbagliata, secondo me, in modo radicale. Ha ritenuto e ha proclamato che si trattasse solo di una questione interna alla borghesia, e quindi si arrangiassero tra di loro. Di conseguenza non ha voluto proclamare lo sciopero generale contro il colpo di stato, sostenendo che non era diretto contro di loro ma contro altri settori della borghesia. E così li hanno potuti arrestare tutti spedendoli al Guaire. È stato terribile, furono torturati, la repressione è stata tremenda. Santillán, che è sfuggito alla fucilazione perché era riuscito a passare in Uruguay per il rotto della cuffia, aveva fatto di tutto perché la FORA dichiarasse l o sciopero generale e, se fosse andata come sosteneva, si sarebbe potuto paralizzare il porto e forse salvare la situazione. È stato un errore tremendo, che ha significato anche la perdita del movimento sindacale da parte dell’anarchismo. Nonostante la divisione che si era prodotta anche in Argentina sul problema della rivoluzione russa, gli anarchici controllavano ancora la maggioranza del movimento sindacale e potevano paralizzare tutta Buenos Aires. Ci si può scorgere una certa somiglianza con quello che è successo in Spagna nel ’36. Il movimento è caduto nelle mani della dittatura così.
Ma c’erano delle discordie interne? C’era forse qualcuno che avrebbe voluto fare diversamente?
Sì. Santillán era disperato perché "La Protesta" appoggiava la Fora e lui ne era il direttore. "La Protesta" allora era quotidiana, da molto tempo era quotidiana, loro erano proprio una potenza ma né lui né gli altri compagni de "La Protesta" sono riusciti a smuovere la FORA: "quelli sono solo dei borghesi, a noi che cosa ci può importare, i l governo è sempre quello, è un governo militare, tanto vale..." e invece, e invece c’era differenza. Un enorme errore di valutazione, davvero, da cui la FORA non si è mai più ripresa.
Quanto è durata la dittatura di Uriburu?
Beh, non si può dire con esattezza, perché dopo la morte di Uriburu, quelli che gli sono succeduti ne hanno raccolto l’eredità. Dopo è venuto Justo ed anche lui era un dittatore, anche se meno feroce, in un certo senso un po’ attenuato. Succedeva così allora in Sud America, che le dittature un po’ alla volta si annacquassero. Oggi invece le più recenti dittature militari sono state di tipo fascista, dirette in parte dal Nord America e sincronizzate fra loro, a differenza di quelle, diciamo così, consuetudinarie. Tra l’altro poi in Uruguay ne abbiamo avuta una sola, relativamente breve e non di tipo militare. L’Uruguay è rimasto un paese democratico, per quasi tutto il secolo ad eccezione di quei dodici terribili anni di dittatura militare. Invece in Argentina è stato tutto un susseguirsi di dittature perché anche Perón era un dittatore, che formava una classe di dirigenti peronisti e militari.
Quali furono le ripercussioni in Uruguay?
C’era una tradizione di reciprocità fra Uruguay e Argentina perché le dittature non erano mai sincronizzate e se c’era un regime dittatoriale in Argentina, contemporaneamente in Uruguay si stava bene e del resto bastava attraversare il fiume... Ci furono giornali che iniziarono le pubblicazioni in Argentina per finire in Uruguay o viceversa, a seconda delle vicissitudini politiche. In un primo momento quindi, allorché sono arrivati gli esuli argentini, il movimento ha ricevuto un grande impulso ma poi, nel 1933, ci trovammo con una specie di dittatura anche in Uruguay, perché il presidente della repubblica non voleva lasciare il potere e per continuare a governare, ha fatto un colpo di stato. Fu allora che deportarono in Italia tanti compagni, tra i quali Ugo Fedeli. Anche il padre di quella mia amica che militava nel gruppo femminile venne deportato. Era nato a Padova, ma non sapeva quasi una parola d’italiano, essendo venuto quand’era piccolo, eppure l’hanno rispedito in Italia. Tutto questo è durato quattro o cinque anni, poi tutto si è attenuato. E dopo l’Uruguay è stato sempre un paese abbastanza ospitale e libero.

Avete avuto dei problemi con "Studi Sociali" in quel periodo?
In quei momenti avevamo pensato di recarci in Messico oppure in Spagna, perché queste deportazioni minacciavano anche noi, ma poi è passato il periodo più acuto e allora siamo rimasti. Problemi seri non ne abbiamo avuti. In principio si respirava una grande libertà. Ad esempio, dopo un anno che eravamo arrivati fummo chiamati dalle autorità che ci comunicarono che la legazione italiana (non c’era ancora allora l’ambasciata) chiedeva continuamente notizie su di noi, cosa facevamo, di che cosa vivevamo, che cosa scrivessimo, quali fossero le nostre fonti di sussistenza. E loro chiedevano a noi cosa volevamo che rispondessero alla legazione, e fosse o non fosse la verità, a loro non interessava assolutamente. E infatti, quando sono stata all’EUR a vedere l’incartamento di mio padre, vi trovai delle informazioni esatte, si diceva che eravamo una famiglia con una condotta di vita regolare e che su di noi non si poteva dire niente. Ci siamo sentiti un po’ minacciati per quello che succedeva agli altri, però a noi non è successo n iente. Gli spagnoli invece furono riportati in Spagna ma ne furono felici perché era appena stata dichiarata la repubblica.

La lezione della Spagna
Parlando della Spagna, cosa pensavi che si sarebbe dovuto fare con la seconda repubblica? Eri più in sintonia con la posizione possibilista (di Max Nettlau), oppure con quella radicale (di Gigi Damiani), cioè che si dovesse lottare anche contro di essa? Cosa dovevano fare gli anarchici?
Bisogna inquadrare il momento perché ho avuto opinioni differenti in differenti momenti. C’era stato il precedente della rivoluzione nelle Asturie e in quell’occasione, c’era ancora mio padre, si aveva l’impressione che i compagni avessero partecipato troppo poco. Perché anche se erano stati presenti forse non avevano fatto tutto il possibile, considerando anche che il movimento era in mano ai socialisti e alla UGT. Ricordo che quella era l’impressione di mio padre. Evidentemente, nei primi tempi, finché la Repubblica mantenne un carattere popolare, c’era qualcosa da sostenere, ma quando è venuta assumendo una connotazione sempre più borghese, allora non si poteva più appoggiarla. Ci furono i fatti di Casas Viejas, in cui il governo di Azaña sparò contro i ribelli sterminandoli ma quei ribelli erano dei compagni, di quella stessa razza che, quando ci fu il golpe di Franco, salvò la situazione salvando anche la repubblica. Per me era un atteggiamento inevitabile.
Cosa pensavi allora e cosa pensi oggi della guerra civile spagnola e della rivoluzione?
Non credo di aver modificato il criterio. Penso che siano stati commessi molti errori, alcuni dei quali quasi inevitabili date le circostanze, ma oggi sono arrivata alla conclusione, e in questo, sì, forse sono cambiata un pochino, che valeva comunque la pena provare. Avendo la piena consapevolezza che è una prova, si possono fare cose che posso no portare a dei miglioramenti in senso anarchico anche se non corrispondono fino al millimetro al modello. Con la coscienza che è una prova e conservando bene l’intelaiatura di quello che si vuol fare. Quindi anche nel giudicare i fatti di quell’epoca sono portata ad una certa flessibilità.
In che senso questa flessibilità di oggi è diversa dall’atteggiamento di allora?
Allora tutto, naturalmente, appariva più grave. Ci sono stati momenti tremendi durante la guerra civile, problemi di coscienza vissuti in prima persona da quelli che erano sul posto, ma che comunque tutti sentivamo. Quando gli anarchici sono andati al governo, fu senz’altro un atto di assoluta incoerenza, però era in pericolo la vita di migliaia , migliaia e migliaia di militanti e quindi bisognava trovare una soluzione. Forse fu necessario lasciare una strada aperta perché potessero salvarsi, comunque erano cose che appartenevano a quei momenti, cose difficili da dire. Al proposito scrissi anche un breve testo che fu poi pubblicato in opuscolo da Giovanna Berneri e da Cesare Zaccaria in sieme ad un articolo di Santillàn. Magari si dice "è stato un errore!", però sono errori che a volte, nel pieno della lotta, si commettono: a un tratto ti trovi a dover decidere e il tutto mentre sei pressato da innumerevoli pericoli. In quei giorni arrivai a convincermi che quello fosse un errore pressoché obbligato, o per lo meno che i compagni che lo commisero non scorgessero nessun’altra strada per uscire da quella situazione.
E cosa puoi dire a proposito della militarizzazione delle milizie volontarie, cioè del fatto che gli anarchici accettarono che queste si trasformassero in esercito regolare?
Quello forse è stato un errore maggiore, perché ha prodotto conseguenze molto, molto gravi. Ha compromesso non solo la rivoluzione ma addirittura anche la guerra. Del resto compresi che si convinsero ad operare quella scelta temendo, in caso contrario, di perdere la guerra e in ogni modo ci si sarebbe dovuti trovare sul posto per avere tutti gli elementi in mano. Resta il fatto che quello della militarizzazione fu forse l’errore più grosso compiuto dai nostri compagni, maggiore ancora dell’andata al governo. Sono convinta che andare al governo sia stato uno sbaglio completamente negativo, però molto difficile da evitare. E che implicava la responsabilità della morte di tanti compagni, una responsabilità ben difficile da prendersi. È più lieve la responsabilità della incoerenza, capisci. A me dissero, allora, che quella decisione fu presa soprattutto perché c’erano molti compagni, nel Levante, che sarebbero rimasti in mano ai comunisti, oppure, in caso di sconfitta, che sarebbero caduti nelle mani di Franco.
Pur stando in Sud America, nonostante le distanze, vi rendevate conto dell’importanza della guerra e della rivoluzione spagnola, comprendevate che si trattava della rivoluzione anarchica?
Sì, certo. Quello fu il momento in cui l’anarchismo si è realizzato, almeno in parte, e in cui si dimostrò che era possibile, che era realizzabile. E lo ha dimostrato per davvero. Noi comunque eravamo molto vicini perché ricevevamo tutta la stampa spagnola, dal bollettino della CNT che era quotidiano, a praticamente, tutta la stampa di Valencia. Inoltre, dato che allora pubblicavo "Studi Sociali", ricevevo in cambio la stampa italiana dell’emigrazione, come "Giustizia e Libertà", "Il Bisogno del Popolo" dei comunisti, "l’Avanti", "La Battaglia" del POUM. Tutto questo mi permetteva di capire in che modo le varie tendenze giudicassero gli avvenimenti, fornendomi inoltre una quantità di notizie che non si sarebbero potute trovare sulla grande stampa. Preziosissime erano le corrispondenze dell’"Avanti" dalla Spagna e, soprattutto la lettura di "Giustizia e libertà". Ricordo Magrini, ad esempio, che si era recato in Spagna, e pur non essendo anarchico, mi mandava dei resoconti con una enormità di notizie. Eravamo davvero molto i nformati, si viveva per la guerra di Spagna, non si pensava ad altro e non si faceva altro che cercare aiuti per i compagni spagnoli, si andava in giro a raccogliere dei medicinali, e poi si scriveva, si scriveva molto sulla Spagna. Stampammo anche un giornaletto e io compilai un’antologia sulla rivoluzione spagnola, ormai introvabile, comprendent e il bollettino della CNT-FAI con tutti gli episodi di prima del ’36. Cercavamo di intervenire sull’opinione pubblica per evitare che fosse troppo influenzata dai cronisti borghesi.
Quando comincia ad allentarsi la tensione rivoluzionaria? Dopo i fatti di maggio?
Dopo i fatti di maggio. Dopo i fatti di maggio fu tutta un’altra cosa, si ebbe quasi la consapevolezza che era finita. Ci fu un tremendo scoraggiamento, che prese tutti i compagni, indistintamente. Naturalmente si continuava a dire "Bisogna vincere la guerra, bisogna che la rivoluzione trionfi, bisogna salvare la rivoluzione", però si capiva che era tutto molto più difficile.
Come fu vissuta la morte di Berneri?
Beh, io in un modo molto speciale perché ero amica di Berneri e ho sofferto come non avrebbero potuto i compagni uruguayani, anche se, naturalmente, colpì molto anche loro. Tra l’altro nello stesso giorno in cui uccisero Berneri, fu assassinato Ducrò, un uruguayano partito volontario per la Spagna: le modalità furono quasi identiche, fu fermato per la strada e fu interrogato, e quando disse di appartenere alla CNT l’hanno freddato. Era un bravo compagno e in Uruguay lo sentirono molto vicino, con ragione. Quasi contemporaneamente, poi, morì anche Battistelli. Cadde al fronte, ma fu quasi un suicidio. La morte di Berneri l’aveva davvero scosso e allora andò in prima linea solamente co n un frustino, disarmato, voleva morire. Sono convinta che la disperazione abbia preso anche lui perché la morte di Berneri significava una frattura talmente grande nel campo antifascista da rendere tutto molto difficile. Battistelli non era un nostro compagno, però ci era molto, molto vicino e ho dei cari ricordi di lui. Quando uscì il mio libro di poesie Canti dell’attesa, si commosse perché c’era una poesia su Molinella, e allora lui mi mandò una poesia su Bologna, in cui la vede "con fermo ardore", mi ricordo questo verso.
Ci furono ripercussioni in Uruguay e in Argentina, dopo i fatti del maggio 1937?
Non tanto per la morte di Berneri in particolare, quanto piuttosto per i fatti di maggio in generale. Come ti ho detto, sentivamo la morte di Berneri come qualche cosa di particolarmente doloroso, ma va tutto inquadrato in un quadro più generale, morì Ducrò e anche se adesso non li ricordo tutti, morirono anche parecchi altri, come Barbieri ad esempio.
Come vivesti quelle giornate? Ti lasciasti vincere dal pessimismo oppure mantenesti delle aspettative?
Beh, fino al ’38 ho continuato a sperare, ma solo fino al ’38. Dopo ormai si capiva che sarebbe finita così. E si intravedeva anche che la sconfitta della rivoluzione spagnola avrebbe significato la seconda guerra mondiale. E quando Franco trionfò e fu la sconfitta della rivoluzione spagnola, fu davvero la disperazione. C’era una compagna argentina di origine galiziana che stava con me; andavamo a piangere nella vigna, era estate a Montevideo, e abbiamo pianto tanto. Per me quello è stato il momento più intenso della mia vita di militante, sono stati proprio gli anni della rivoluzione spagnola.

Teatro e feste

Ora vorrei farti una domanda specifica su un argomento che mi interessa in modo particolare. Così come ci sono state in altre situazioni e in altri paesi, ci furono esperienze di compagnie filodrammatiche anche anarchiche in Uruguay?
Direi di no. C’erano dei gruppi che facevano un tipo di teatro molto popolare e che a volte intervenivano quando si organizzavano delle feste campestri a beneficio dei nostri giornali. C’erano anche nostri compagni o compagne che ci recitavano. In quel gruppo femminile, di cui ti parlavo, ce n’era una che partecipava ma non era un’attrice, bensì una dilettante. In ogni modo erano tutte cose molto modeste e si rappresentavano soprattutto le opere di Rodolfo Pacheco, un autore uruguayano. Anche Gori era stato rappresentato, ma in un periodo precedente. Il primo maggio di Gori fu dato molte volte al Centro Internacional, un circolo anarchico fondato nel 1888 e rimasto in attività fino al 19 20, ma quando sono arrivata io non esisteva già più. Lì Gori veniva rappresentato spesso, anche perché prima che io andassi nell’Uruguay, il movimento sindacale che era diretto dagli anarchici, aveva una forte componente italiana in conseguenza della emigrazione di massa di quel periodo. E allora si allestivano opere sia in italiano che in spa gnolo. Florencio Sánchez, che non ha niente di italiano e che è il principale autore drammatico nato in Uruguay, (anche se gli argentini dicono che è argentino perché ha scritto le sue cose migliori in Argentina), ha fatto i suoi primi passi come autore drammatico e come attore nel Centro Internacional. È stato anarchico anche lui e recitava tanto in italiano quanto in spagnolo e molto spesso si recitava Calendimaggio di Pietro Gori. Questo è quello che ti posso dire riguardo al periodo precedente il mio arrivo, mentre dopo non ho mai saputo che si recitasse in italiano.
E questi momenti teatrali rappresentavano dei momenti di aggregazione per i compagni, ad esempio all’interno dei circoli creativi?
Nelle feste che i compagni organizzavano al Centro Internacional o in altri posti si facevano delle recite anche in italiano, e questi momenti erano naturalmente delle occasioni di unione. L’Uruguay ha una ricca produzione di teatro sperimentale e teatro popolare, ma l’italiano è andato perso perché l’ispirazione è più o meno cessata. C’è stato un periodo in cui venivano compagnie italiane anche nei teatri ufficiali, anche molto spesso, e avevano un tale successo che gli autori argentini e uruguayani facevano tradurre i loro testi in italiano perché potessero essere rappresentati da queste compagnie. Ma tutto questo non riguardava per nulla il movimento anarchico, all’interno del qua le al massimo si rappresentava Pietro Gori.
Adesso vorrei avere qualche tuo ricordo su compagni che hai conosciuto direttamente. Cosa puoi dire ad esempio di Ugo Fedeli?
Era con mio padre nella redazione di "Studi Sociali". Ho parecchi ricordi su di lui, ad esempio ho sentito, sono cose che probabilmente sono già note, che fu compromesso nei fatti del Diana e che passò la frontiera per questo motivo. Stava già con Clelia, la moglie. Un fatto divertente fu che decisero di sposarsi a Milano perché era più comodo per partire, ma quando arrivarono in Svizzera dovettero cambiare nome, per cui, giunti in albergo, non poterono andare in camera insieme perché non risultavano sposati. Poi capitarono in Uruguay poco tempo dopo di noi e trovarono casa anch’essi. Fin dal primo giorno Clelia si mise a parlare in spagnolo con dei risultati davvero divertentissimi. Mi ricordo (non sono ricordi degni di essere registrati) di una volta che dovevano comprare della verdura e Clelia aveva orecchiato che le zucchette si chiamano zaballitos, e allora lei chiese un chilo di zapatillas, solo che si sbagliò perché le zapatillas sono le pantofole. Apprezzai fin da subito Clelia perché era una donna molto energica e d una buona compagna per Ugo. Finché sono stati a Montevideo ci frequentavamo spesso, ed anche loro sono stati intimi amici di Simon Radowitzky. Sentiva molto l’influenza di mio padre, e non solo dal punto di vista ideologico, ma anche per come scriveva. Hanno lavorato molto insieme e potrei dire che si è formato insieme a lui, e infatti quando fu compromesso con l’attentato del Diana aveva posizioni decisamente diverse da quelle di babbo e di Malatesta, posizioni che poi, in Uruguay, verrà modificando. Quando fu deportato in Italia avevano già un bambino e il bambino è morto.
Era lui il più stretto collaboratore di Fabbri?
Sì. In quel periodo sì, per cui quando venne deportato fu davvero una grossa perdita per la rivista. Babbo praticamente rimase da solo, anche se ancora c’era Torquato Gobbi di Reggio Emilia, un’altra bella figura di anarchico. Fedeli l’ho rivisto all’Olivetti, e ho potuto vedere che lì disimpegnava una funzione molto interessante dal punto di vista culturale, comunque dopo non l’ho visto più.
Un messaggio di speranza

Proseguiamo con i militanti che hai conosciuto. Errico Malatesta, che tipo di uomo era?
Beh, per me è stato una specie di nonno. Per me e per mio fratello. Ricordo ancora la prima volta che l’ho conosciuto. Fu a Roma, dopo la settimana rossa, dove rimasi per due anni insieme ai nonni lontano da Bologna. Si stava preparando quello che loro speravano fosse un periodo rivoluzionario, Malatesta e lui, e così mi misero al sicuro a Roma, per avere più libertà di movimento. Mio fratello era più piccolo ed è rimasto in famiglia, babbo era in Svizzera, esiliato dopo i fatti mentre Malatesta era già in Italia. Ormai la questione s’era risolta perché anche babbo era stato assolto, o per lo meno stava per essere assolto e così Malatesta è venuto a trovarmi per potergli poi riferire come stavo. Ho visto questo signore così bassetto, con la barbetta, ero con la nonna, mi ricordo che avevo cinque anni, volevo essere disinvolta e allora misi un piede in un gradino troppo alto per cui mia nonna mi disse: "Sta composta!". Malatesta allora disse: "Perché?" Si mise a discutere con mia nonna e già quello per me era quasi un atto eroico, discutere con mia nonna. Ricordo che mi fece una grande impressione, anche se non mi convinse del tutto perché ero quasi del parere che mia nonna avesse ragione. Questa è la prima impressione che ho avuto di Malatesta, ed è un’impressione che mi è rimasta con una specie di calore, perché mi aveva difeso. So che Malatesta scrisse a mio padre di quell’incontro, perché ho visto pubblicata la lettera in un qualche epistolario, non mi ricordo più quando, non molto tempo fa. E in quella lettera Malatesta dice : "Sono andato a trovare Luce". L’ho rivisto quando Giulietti l’ha riportato in Italia, subito dopo la guerra, l’aspettavamo a casa ma non lo vedevamo arrivare perché l’ avevano arrestato ma finalmente arrivò. A quei tempi dormivo in sala da pranzo sull’ottomana, e allora andai a dormire nella camera dei miei genitori cedendogli il sofà. È arrivato e nella valigia aveva un meccano, allora era il giocattolo ultimo modello, erano pochi i bambini che lo possedevano. Non era tutto colorato come sarebbero stati dopo, era molto più sobrio, però aveva un mucchio di pezzi. Mi ricordo che parlò, parlò con mio padre, ma quello che si dissero non lo ricordo, perché avevo solo dieci anni e mezzo, non avevo ancora compiuti gli undici, ricordo comunque che dopo aver chiacchierato a lungo con mio padre, si mise a sedere per terra con noi, sotto il tavolino, mi sem bra adesso, e ci insegnò come si mettevano insieme le parti del meccano, lui era meccanico del resto: costruì una quantità di cose e io e Vero stavamo lì in adorazione.
Umanamente era una persona molto affabile.
Era adorabile. Da allora prese a venire frequentemente anche se in quel periodo risiedeva a Milano alla redazione di "Umanità Nova". Veniva spesso a Bologna a trovarci e s’andava fuori insieme con mio padre, andavamo sempre anche noi, a far passeggiate... e dietro la polizia. Parecchio tempo dopo, già sotto il fascismo, un poliziotto meridionale disse a mio padre: "Si ricorda maestro quando andavamo in campagna con Malatesta?". Tutte le volte che arrivava era una festa per noi bambini, babbo lo faceva sedere a tavolino e: "Scrivi!" gli diceva, perché lui non ci si metteva volentieri. E allora scriveva l’articolo per il giornale, e comunque il babbo gli ha anche fatto riscrivere Al Caffé. Fu una edizione molto più ricca della precedente, e Malatesta l’ha scritta a casa nostra. Quando mio babbo lo costringeva a scrivere mi diceva : "Luce, vai a dire alla mamma che tuo padre vuole un pochino di caffè". Non poteva prendere troppo caffè perché era malato. E una volta che si ammalò gli portavo le pesche di nascosto: aveva la febbre e il medico non voleva che mangiasse altro che delle pappine o la minestrina e così gli portavo la frutta di nascosto.

In tuo padre Malatesta vedeva il suo vero erede spirituale, il compagno a lui più vicino?
L’ha presentato al congresso di Amsterdam e ha detto: mon fils. E in effetti proteggeva davvero mio babbo come se ne fosse il padre spirituale. Ciò non toglie che in certe occasioni abbiano assunto posizioni politiche differenti. Ad esempio sul problema del sindacalismo ci fu una certa disparità di valutazione e al congresso di Amsterdam presero posizioni abbastanza diverse anche se non contrastanti. Mio padre riteneva che la mozione di Malatesta e quella di Monatte fossero conciliabili e le votò entrambe mentre Malatesta non era affatto d’accordo con Monatte, tanto che aveva presentato una mozione differente. Quindi c’era una certa differenza. E quando si è trattato di scrivere sulla morte di Lenin e su "Pensiero e Volontà" Malatesta intitolò Lutto o festa? a mio padre la parola "festa" non piacque affatto. Dopo un certo periodo di tempo dette più o meno ragione a Malatesta ma sul momento si espresse contro.
Come si manifestavano fra di loro questi piccoli dissapori ideologici? Sui giornali?
Si, sui giornali. Comunque restava sempre una polemica molto amichevole, perché si volevano molto bene. Ed era sempre una polemica che non ha mai lasciato dei segni, proprio mai. Semplicemente capitava che vedessero le cose in modo diverso e anche dalle lettere si vede che discutono amichevolmente. Del resto queste differenze sono state veramente poche.
Vorrei raccontarti l’ultima volta che ho incontrato Malatesta. Mio padre era già a Parigi mentre io mi apprestavo ad espatriare dopo essermi laureata. Passai una ventina di giorni a Roma prima di uscire dall’Italia e in quel periodo volevo andare a trovare Malatesta. Questo però non era possibile, perché anche se il fascismo non ha mai osato toccarlo, era comunque completamente isolato: se uno andava a trovarlo a casa, veniva immediatamente arrestato e non lo si poteva neppure salutare per la strada. Viveva in una grande solitudine, era come se fosse in prigione. Nei primi tempi comunque mio fratello ci riusciva: aspettava che lui uscisse e che si trascinasse dietro il poliziotto, quindi saliva le scale ed entrava nell’appartamento. Ma questo stratagemma è finito presto perché dopo di poliziotti ne hanno messi due. Invece per me fu diverso. Ero andata dal dottore, dal radiologo Guglielmo Pampiglione, un compagno, una figura che meriterebbe davvero di essere ricordata, è stato forse il primo radiologo ad aprire un gabinetto radiologico a Roma, e mi aveva fatto una radiografia allo stomaco perché avevo varie anomalie. Era molto amico di mio padre, ed ero stata parecchie volte in sua compagnia perché quando ero bambina ed abitavo coi nonni, veniva a prendermi insieme alla fidanzata e mi portava in campagna con loro. Bene, il dottor Pampiglione mi mandò a dire che mi invitava a pranzo e quando arrivai mi trasse in disparte e mi disse: "Questo pomeriggio, quando comincerò a ricevere i clienti, tu vieni in ambulatorio e aspetta". Ricordo che mi misi a leggere La Revue des deux Mondes e a un certo momento, appena uscito un paziente, mi chiama dentro come se dovessi farmi la radiografia. Appena sono entrata, mi di ce: "Adesso tu mettiti lì, dietro la tenda". Mi sono sistemata e dopo neanche un minuto arriva Malatesta. Malatesta aveva detto che andava a farsi una radiografia e allora era arrivato con tutto il seguito ma i poliziotti erano rimasti in sala d’aspetto. E siamo stati lì dietro, abbiamo parlato in piedi fra lo schermo e una specie di paravento che non so come si chiama, sul gradino dell’apparecchio radiografico. Si amo rimasti un quarto d’ora a parlare, poi ci siamo salutati, e lui mi ha detto: ci rivedremo presto.

Che effetto ti fece rivederlo?
Mi commossi molto, gli volevo molto bene e mi chiesi se l’avrei mai rivisto. E infatti non l’ho più rivisto, anche se mi ha detto: "Ci rivedremo presto, dì a tuo padre che ci rivedremo presto".
Ti ha dato qualche messaggio particolare per tuo padre?
No. Mi disse solo quello. Un messaggio di speranza. E poi andò via, si portò via tutti, e io rimasi ancora un momento poi uscii, andai di sopra e rimasi a cena. Quello fu il mio commiato da Errico, ci siamo abbracciati, "non è l’ultima volta" mi disse, invece è stata l’ultima volta. Fu una amicizia che ho sentita moltissimo. Per me è stato co me un parente stretto, quando ero piccola fu come un nonno. Poi gradualmente ne colsi sempre più l’importanza, come era naturale. Ricordo una volta che doveva parlare in piazza a Bologna. Allora facevo la prima o seconda ginnasio e gli studenti fecero sciopero perché il comune aveva dato il permesso. Erano fascisti. Mi ricordo che io e un gruppo di compagne entrammo comunque, perché non potevamo mica far sciopero, no? E siamo entrate anche se poi non ci fu nessuna lezione e quando siamo uscite tutta la piazza ci ha fischiato.
Sulla scia di Malatesta

Veniamo adesso a delle domande che riguardano piuttosto la tua attività. Quali sono state le tue relazioni col movimento anarchico di lingua italiana negli anni sessanta e dopo?
I miei rapporti con il movimento italiano in quel periodo non sono stati molto stretti, perché in Uruguay quelli sono stati anni molto bui. Fu un periodo di grande tensione interna, e la situazione locale ci assorbiva completamente: era iniziata la fase della lotta dei Tupamaros, e si era aperta una aspra discussione fra i compagni sul problema d ella lotta armata e del fuochismo, cioè il basare la lotta su piccoli gruppi armati che venivano visti come tanti fuochi del movimento. In seguito si aprì la fase che sarebbe sboccata nella dittatura militare, per cui tutto quello che accadeva altrove, anche se veniva avvertito, appariva un po’ sbiadito a fronte del carattere angoscioso della situazione locale. Come era logico, io concentravo la mia attività soprattutto nel movimento locale, anche se mantenevo dei rapporti col movimento italiano, continuavo a ricevere la stampa, mandavo ogni tanto qualche articolo. Ma la militanza, quella che chiamano la militanza, no, era soprattutto per l’Uruguay.
A questo punto credo che varrebbe la pena di aprire una parentesi sul tuo impegno in Uruguay in un periodo così caldo e drammatico. A Montevideo hai sempre militato all’interno di un gruppo anarchico, pensi quindi che come gruppo anarchico siate riusciti a fare un’attività significativa?
Molto significativa no. In quei momenti stavo terminando un periodo di attività pedagogica, che successivamente sarebbe stata repressa, davvero repressa. Le spinte dittatoriali sono cominciate prima della dittatura, hanno cominciato a farsi sentire per lo meno due anni prima. Comunque nel 1965 ero ancora abbastanza impegnata su questo versante. C ’era un movimento pedagogico interessante, soprattutto alle scuole secondarie, che poi era l’ambito che mi interessava di più, e ci stavamo impegnando a lavorare per la riforma dell’insegnamento secondario, combattendo su due fronti, quello contro i reazionari e quello contro i comunisti. Mentre i primi cercavano di bloccare questo movimento tend ente all’autonomia dell’insegnamento secondario, i comunisti, anche se lottavano a favore dell’autonomia, la consideravano però come una cosa puramente strumentale, buona fintantoché si viveva in un regime borghese, ma evidentemente destinata, in regime comunista, a sparire, non avendo più alcuna ragion d’essere. Da questa divergenza ne nasceva no molte altre, e in effetti loro, con le loro preoccupazioni politiche, prettamente politiche, stavano rovinando tutto il nostro lavoro pedagogico, tutta la nostra battaglia, quella cioè che io consideravo come parte del mio impegno libertario. E questa tensione è continuata a lungo, e le ultime assemblee degli insegnanti ne sono rimaste profondamente turbate. Ebbene, quella è ciò che consideravo un’attività libertaria, anche se eravamo in pochi, in pochi anarchici veri e propri, ma in compenso affiancati da un gran numero di persone con una mentalità affine, perché in Uruguay sono molti (e spero anche fuori dall’Uruguay) quelli che hanno una mentalità molto vicina alla nostra senza stare, per questo, all’interno del movimento anarchico.
Quanto al movimento specifico, s’era già prodotta la frattura fra i filocastristi e gli anticastristi. Anche i primi dichiaravano di essere contrari alla dittatura di Castro, però al tempo stesso sostenevano che si dovesse comunque appoggiare il governo rivoluzionario, per cui di fronte alla nostra proposta di sostenere le vittime della dittatura cubana, affermavano che i compagni che erano in prigione ci si trovavano in quanto controrivoluzionari. Tutto questo naturalmente ha portato alla scissione del movimento, accentuata oltre a tutto dal profondo disaccordo sulla valutazione da dare alla lotta armata, dato che i castristi erano vicini ai Tupamaros. Affettivamente era tutto un altro discorso, anch’io conoscevo degli studenti che si erano arruolati nei Tupamaros, volevo loro bene e sapevo che erano la parte migliore della gioventù uruguayana e che si sarebbe bruciata in quell’esperienza. Secondo me si sbagliavano, però è andata così. È stato un eccesso del nazionalismo libertario, perché in esso c’era del socialismo, certamente, però c’era anche molto nazionalismo, e basti tornare con la memoria a quei cortei contro l’America, contro l’imperialismo nordamericano, a tutti quei sentimenti, così sentiti, di liberazione nazionale dalle influenze straniere.

Mi sorgono molti dubbi

Quali pensi che siano le caratteristiche essenziali dell’anarchismo e quali invece quelle accessorie?
Credo che per l’anarchismo sia essenziale il valore attribuito alla libertà della persona, credo che sia questo il valore centrale, accompagnato alla solidarietà in campo economico al posto della competitività. Ovvero il socialismo, perché il mio anarchismo è il socialismo libertario. E mentre penso che l’astensionismo sia un elemento seconda rio, perché mi pare un criterio puramente metodologico che potrebbe anche essere modificato, vedo come altrettanto essenziali il federalismo e l’autogestione, che anche se sono metodologici sono però ineludibili. La libertà e il socialismo non vanno considerati come elementi opposti e da risolvere dialetticamente, ma come strettamente inerenti l’uno all’altro. Quello che ci distingue dai socialdemocratici, per esempio, è che loro pensano che si debba conciliare il socialismo con la libertà attraverso delle forme di compromesso mentre noi riteniamo che il socialismo è libertà e che non lo si può costruire senza libertà. E la libertà dev’essere basata sulla solidarietà perché senza solidarietà non è realizzabile. Dunque libertà e socialismo non vanno intesi come valori contrari che hanno bisogno di essere conciliati, come molti hanno voluto sostenere. Si è detto che la dittatura provvisoria è ineluttabile e che se vogliamo fare il socialismo occorre rinunciare alla libertà per un certo periodo di tempo, ma questi no n sono assolutamente due valori contrapposti, bensì due valori intrinseci l’uno all’altro. Penso che sia questo per noi il principio centrale, quello più importante, così come è centrale l’antimilitarismo che è la derivazione logica dell’amore per la libertà. So invece di dissentire parecchio da molti compagni, làddove affermo che l’astensionismo, l’avversione alla rappresentatività, abbiano solo una connotazione metodologica e sperimentale.
Quale pensi che potrebbe essere una situazione tipo in cui rinunciare all’astensionismo?
Ci possono essere casi in cui vale la pena sperimentare una qualche rappresentatività, anche se ovviamente non quando si tratti di forme di governo, perché sempre e comunque resta fondamentale che noi siamo contro tutti i governi. Noi però applichiamo i principi astensionisti nei confronti di tutte le elezioni, di tutte le rappresentanze, anche se si tratta, ad esempio, di questioni scolastiche. E allora mi sorgono molti dubbi, perché sono convinta che a volte valga la pena sperimentare una delega, anche solo magari per un periodo determinato, senza farne una questione essenziale, ma solo di carattere sperimentale. Ritengo che il sistema rappresentativo non sia un sistema nemico, ma piuttosto una esperienza fallita, un metodo che conduce necessariamente all’autorità, e che quindi è ingannevole e pericoloso come una trappola, tanto più che non è nemmeno veramente rappresentativo e non garantisce la libertà. Però in un dato momento storico ha rappresentato una conquista, ottenuta con sincerità di intenti e a prezzo di dure lotte e in ogni modo è molto meglio di una qualsiasi dittatura. Se ad esempio Fidel Castro indicesse le elezioni, questa sarebbe un’apertura, si respirerebbe meglio. Non è una soluzione, noi sappiamo perfettamente che non può essere una soluzione, però è anche vero che il suffragio universale ha rappresentato una conquista rispetto al suffragio ristretto. Penso che una qualche delega, revocabile, la si possa sperimentare, perché nessuno di noi può occuparsi di tutto. E inoltre la natura umana è quella che è, e la gente che in generale si occupa solo del proprio lavoro difficilmente è disposta ad occuparsi dell’organizzazione del lavoro, per cui nei fatti è già molto se ti dà una delega e se esercita una qualche forma di controllo. Per noi il sistema ottimale è quello assembleare e della delega, sempre revocabile, di quelle funzioni che non possono essere esercitate da tutti, ma poiché queste sono cose che fanno parte del terreno metodologico, è doveroso da parte nostra sperimentare le forme che più garantiscano l’ intervento degli interessati, l’azione diretta, l’autogestione e l’autonomia della persona. Quindi è evidente che sul piano metodologico esiste sempre la possibilità di avanzare nuove proposte anche se probabilmente non funzionerà in modo ottimale neppure questo sistema, anche se ci sarà chi sosterrà che si tratta di una soluzione ingannevole , anche se saranno mosse molte critiche perché le cose non funzionano mai perfettamente. Però, tanto per fare un esempio, credo che il sistema dei referendum sia da appoggiare.
In effetti anche in Italia se ne è sempre discusso all’interno del movimento anarchico.
Certo, però il movimento nel suo complesso è stato sempre contrario ai referendum, mentre noi in Sud America generalmente ne approfittiamo e infatti abbiamo sempre partecipato. La discussione al massimo verte su come intervenire, come votare, per cui ci sono compagni che votano per il sì e altri compagni che votano per il no, però tutti votano . Tra l’altro, in Uruguay è obbligatorio recarsi a votare, altrimenti non puoi più riscuotere né la pensione né lo stipendio. Questo vale sia per il referendum che per le elezioni, per cui ci rechiamo a votare anche a queste ultime, ma votiamo scheda bianca. A un certo punto tentai anche di imbastire un movimento contro l’obbligatorietà del v oto, però non ce l’ho fatta, anche perché in quel periodo gli anarchici non erano sufficientemente dinamici e quindi, visto che allora nessuno s’è mosso, si continua a votare scheda bianca. Del resto sono convinta che non sia affatto un delitto se una qualche volta un compagno non vota in bianco perché strategicamente pensa che sia molto megli o se vince il tale invece del talaltro, non mi sembra affatto che sia una cosa profondamente antianarchica. Considero tutta questa questione come un fatto sperimentale, anche se in Italia, probabilmente, i compagni mi giudicheranno una eretica. Però non mi importa.
Forse è così, comunque anche in Italia ci sono delle differenze, delle "eresie". Del resto il vero problema del movimento anarchico è di non avere potuto sperimentare quello che ha teorizzato.
Certo, la vera sperimentazione è stata fatta solo in Spagna, ma è anche vero che è possibile sperimentare anche nel piccolo, che so, all’interno di una cooperativa, in una comunità, in una microsocietà di un qualche tipo. Tutti queste sperimentazioni possono essere utili, molto utili.

Restando nel campo delle componenti essenziali e di quelle accessorie, come vedi il pacifismo e la non violenza? Ti faccio questa domanda pensando anche a Judith Malina, a quando afferma : io sono anarchica perché sono pacifista.
Questa domanda ha relazione con il problema della violenza, un problema insolubile che mi tormenta da moltissimi anni. Io sento la violenza come una cosa antianarchica, come autoritaria in sé, e d’altra parte sento anche che abbiamo delle responsabilità di fronte alla realtà e soprattutto di fronte alle sofferenze della gente. Ci sono momenti i n cui non si può non lottare anche se non siamo noi a poter scegliere come intervenire, ma sono anche convinta che quando le cose si mettono sul terreno della violenza allora sia una disgrazia. Sono arrivata a questa conclusione, anche se è una conclusione relativa, provvisoria, insoddisfacente. Mi piacerebbe arrivare alla conclusione di rifiuta re qualsiasi violenza, succeda quel che succeda, perché è una soluzione che magari non so dove ti possa portare, però ti fa sentire coi piedi fermi per terra. Sono convinta che per arrivare alla libertà ci voglia la pace, non solo la pace tra i gruppi sociali, ma anche una pace interiore, una maggior tolleranza reciproca. Se il movimento anarchico non assolve a questa funzione, quella di fornire un esempio di convivenza pacifica fra tutte le differenze, una convivenza dialettica e polemica però pacifica, che altra funzione può disimpegnare? Questo secondo me è il punto centrale, che il movimento anarchico ha una ragion d’essere se funziona anarchicamente e se è in grado di contenere al suo interno differenze che convivano funzionalmente, se al contrario offre un quadro di contrasti e di un’intolleranza sostanzialmente autoritaria, allora è difficile che possa disimpegnare funzioni in altri campi.
Alla domanda seguente in realtà hai in gran parte risposto, però forse non del tutto. Ti avrei chiesto cosa significhi per te essere anarchica, credi di aver già risposto oppure puoi aggiungere qualcosa?
La coerenza totale è impossibile, perché permane sempre il contrasto fra quello che si pensa e come si vive, e dobbiamo sempre fare delle concessioni. Però c’è un percorso da fare, non solo in campo sociale ma anche sul terreno personale e l’anarchismo ha sempre rappresentato una concezione della vita, un modo di vivere. Per me è al tempo stesso una guida interiore e un criterio di lotta collettiva, sono entrambe queste cose.
Ma ci sono delle caratteristiche proprie dell’anarchico, da un punto di vista umano come si caratterizza un anarchico?
Il direttore del mio liceo era solito dire: "La signora Fabbri non ha bisogno che le si debba dire qualcosa, fa sempre quello che deve, non ha bisogno di indicazioni anche se nessuno la controlla" e io gli rispondevo "Perché sono anarchica, no?". Io non voglio che altri mi comandino, e allora devo fare quello che devo, sento che quella è la strada. Credo che sia questa la caratteristica più importante, accompagnata anche dall’orgoglio personale. Sono convinta che essere anarchici dia un certo orgoglio.
Come sei riuscita a trasfondere i principi anarchici nelle pratica quotidiana del tuo lavoro?
Le condizioni ambientali sono tali che ci si riesce sempre poco, in misura molto modesta e inoltre dipende anche dal tipo di lavoro che si fa. Il mio lavoro è insegnare, e forse avrei potuto fare di più, se avessi avuto un carattere più energico. Comunque ho sempre cercato di insegnare imparando, di non mettermi in una posizione di superiorità ma di approfittare di tutte le volte in cui mi sbagliavo per dire agli studenti: "Come vedete, anche il professore sbaglia, tutti possono sbagliare, per cui bisogna sempre fare delle verifiche, e pensare con la propria testa cercando di demitizzare il testo". E questo mio modo di insegnare, questo mio cercare di convincerli a pensare in modo indi pendente e a formarsi loro criteri senza influire su di loro ideologicamente, è un po’ lo stesso criterio con cui mi ha educato mio padre. Credo che sia il criterio anarchico, e con questo criterio ho sempre cercato di svolgere la mia opera.
Ci sono stati dei tuoi allievi che si sono avvicinati all’anarchismo, in seguito alla tua frequentazione?
Parecchi si sono avvicinati, però non so se siano entrati nel movimento, non ci ho mai pensato. Una professoressa di storia che è stata in prigione tre anni durante la dittatura e che fu anche torturata, quella è stata una mia alunna. Si era avvicinata ai compagni favorevoli alla lotta armata ma oggi concorda con me nel giudicarlo un errore; comunque non è una militante, e non so neppure se si dichiari anarchica, non credo. Un altro ha fatto carriera in Francia come direttore dell’Istituto di Studi Ibero-americani a Parigi. Ha scritto parecchi libri ed è abbastanza vicino a noi, è un simpatizzante. Comunque possono essercene altri, ho avuto talmente tanti studenti, ne avevo novanta n elle secondarie, due classi di quarantacinque, e nello stesso tempo all’istituto dei professori ne avevo almeno trentacinque, più una quindicina all’Università. Prova a metterli tutti insieme, per un anno, poi per l’anno seguente, e poi ancora, ancora, per sessant’anni di insegnamento.

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