FERRUA, Pietro. "Alla scoperta della Cinecaleidografia"

albumFERRUA, Pietro (Piero) Michele Stefano (1930 - ....)
Hommage à Lucien Fontana Hommage à Kasimir Malevitch Remembrance of Maximilien Luce
Souvenir of Charles Henry Thinking of Paul Signac

Nel 1984 l’amico Maurice Lemaître, noto artista ed intellettuale parigino ed eminente rappresentante del movimento lettrista, mi propose di realizzare un film d’avanguardia da proiettare alla Cinemateca Francese, in un programma che stava coordinando.
Il suo invito prevedeva soltanto due condizioni restrittive:
a) doveva esser pronto entro fine anno, per poter essere proiettato assieme ad altre creazioni sue o di altri cineasti sperimentali;b)
c) doveva trattare della condizione femminile.
d)
Lemaître era consapevole della mia mancanza di maestria dietro la cinepresa e della mia scarsa esperienza davanti all’obiettivo. Gli risultava però ch’io avessi visionato, analizzato e commentato abbastanza filmati lettristi nelle mie opere esegetiche e mi suggerí di presentare uno spettacolo cinematografico senza pellicola e di animarlo di fronte ad uno schermo “vuoto”. Insomma, di ispirarmi ad uno stratagemma da lui escogitato e che mi aveva molto divertito in A projeter sur le ciel, la nuit, un omaggio a Dominique Noguez, fine conoscitore dei movimenti d’avanguardia cinematografica. L’operatore, dopo alcuni minuti di proiezione muta e con pellicola bianca, prepara una sorpresa per gli spettatori ormai irritati, che sbuffano e cominciano a mormorare. Al momento giudicato giusto dal regista, questi, seduto anonimamente fra il pubblico, improvvisamente si alza, si dirige frettolosamente verso lo schermo, addita un punto indeterminato della tela immacolata e pronuncia la frase paradossale:
Ma che bel granello di polvere!.
Uno scroscio di risa rallenta la tensione generale e non ci si indigna per la presa in giro, sulla quale si può anche imbastire un discorso metafisico
L’arte contiene anche elementi ludici ma, per quanto geniale sia una trovata, non tutti possono rivaleggiare con Duchamp o Lemaître. Decisi perciò di non dargli retta né di cercare di imitarlo e volli invece sorprenderlo confezionando un film vero e proprio. Acquistai una cinepresa rudimentale con registratore di suono e cominciai ad intervistare tutte le persone del gentil sesso di mia conoscenza che potessero esprimersi in un francese che va dal linguaggio corretto a quello maccheronico. A Portland, ove mi trovavo, non c’era un laboratorio attrezzato per lo sviluppo delle bobine a passo ridotto. Ci voleva perciò almeno una settimana prima di poter visionare i rush.
I risultati furono, in genere, deludenti: sbalzi di suono e di illuminazione, il francese andava dal linguaggio aulico a frasi smozzate e spesso incomprensibili, imperizia generale, insomma.
Che aspettarsi d’altro da un gruppetto di amici che si dedicavano ad un mestiere tutto da imparare!
Nel frattempo la scadenza si avvicinava ed era ormai ovvio che il film non sarebbe stato pronto per il Festival, ormai fissato per i primi di gennaio del 1985.
Alla data prevista arrivai a Parigi a mani vuote, anche se nei miei bagagli c’erano parecchie bobine, quelle di Portland, piú altre di materiale filmato girato in Malesia, Giappone, Hong Kong, dove ero stato nei mesi precedenti. Una delle mie valigie si era sfasciata e alcuni oggetti ne erano fuoriusciti e si erano smarriti. Due terzi delle bobine asiatiche si persero e ne rimase solo una, quella che riguarda Tokyo.
Mi trovavo in Europa in missione culturale e vi rimasi per sette mesi durante i quali dovetti occuparmi di una trentina di studenti ed organizzare per loro corsi, conferenze, gite, visite di musei, ecc...Quando il mio compito si esaurí e i giovani rientrarono in patria ripresi in mano il progetto cinematografico accantonato per lungo tempo e al quale potevo finalmente dedicarmi. Girai ancora qualche bobina, sia nelle prealpi nizzarde (in casa degli amici Amy e Jean Laborde, a Falicon), con mia moglie al piano che, a momenti, pende dal soffitto, alle prese con una sonata di Domenico Zipoli, compositore pratese dell’epoca barocca un po’ dimenticato, sia nella mia città natale di San Remo (ove aggiunsi del materiale visivo: una serie di ritratti femminili opera dell’amico Giulio Costa).
Era giunto il momento di curare il montaggio e affidai il compito a Giulio Costa, il quale, oltre ad essere pittore, si era anche espresso come regista di film in Super8 e 16 mm., al quale affiancai il compianto Moreno Marchi, saggista e artista, ricco di idee. Si fece il bilancio: disponevamo di un paio d’ore di pellicola filmata che si trattava di ridurre a venti minuti. Moreno suggerí un montaggio dinamico e frammentario anziché una noiosa serie d’interviste. La sua idea prevalse. Rimaneva il problema della transizione da un personaggio all’altro, evitando il taglio brusco del montaggio tradizionale, come pure le trovate originali dei lettristi, già imitati da Marguerite Duras. Bisognava creare dei siparietti.
A questo punto avvenne un’epifania, ma, anziche verso l’alto, venni trasportato verso il passato. Trent’anni prima ero rimasto folgorato da una mostra intitolata “ Kunst und Naturform”, allestita dal Museo d’ Arte di Basilea. Consisteva in un raffronto fra le opere informali di alcuni artisti moderni e contemporanei e forme molto rassomiglianti prese in prestito alla scienza e alla tecnologia. Per dare un esempio: cristalli di vitamina C fotografati con luce polarizzata, molto simili ad un quadro di Mark Tobey.
Queste microforme non erano visibili ad occhio nudo e lo diventarono soltanto dopo la scoperta del microscopio elettronico. La rassomiglianza era lampante e la sua stranezza derivava dal fatto che l’artista non poteva essersi ispirato a forme esistenti ma le aveva “immaginate”. Lo scopo della mostra era appunto quello di provare che l’artista è un profeta che precorre i tempi.
Un decennio dopo mi interessai agli esperimenti dell’israeliano Paul Konrad Hoenich (fra noi ci fu anche uno scambio di lettere) con la luce, particolarmente coi raggi solari, che avevo scoperto nel 1970 grazie alla rivista ARIEL.
Quando cominciai i miei esperimenti a Nizza nel 1985, ne parlai con Moreno Marchi il quale menzionò la “micrografia” non come obiezione ma come una possibile fonte d’ispirazione.Gli risposi che infatti la micrografia era stata rimessa un po’ in voga dai movimenti d’avanguardia coevi, come il Lettrismo e l’Inismo, ma che si trattava di una tecnica artistica vecchia almeno tanto quanto lo era la lingua ebraica, dato che si basava su combinazioni dell’alfabeto ebraico, allungate, allargate, distorte. Isou e Bertozzi, Lemaître e Merante avevano invece arricchito questo arsenale di segni aggiungendovi quelli dei geroglifici egizi, gli arabeschi (sistematicamente adoperati soprattutto dal mio discepolo Bill Griffin) e tanti altri alfabeti, dal sanscrito al cirillico, aggiungendovi anche il colore.
Gli americani, con in testa Leon Harmon, hanno da parte loro, abbandonato la lettera come elemento decorativo e sviluppato piuttosto le tecniche fotografiche, creando il sistema del “fotomosaico” , perfezionato poi da Robert Silvers, col suo noto ritratto di MARILYN MONROE in “metapixel”, sviluppando poi un software per applicare le teorie di Harmon. Con questo programma chiunque può creare i suoi fotomosaici. Sono poi apparsi gli “stereogrammi” definiti come una realtà visiva non computerizzata.
Tutte queste scoperte mi avevano affascinato ma non ne ero mai rimasto totalmente soddisfatto. Se alle lettere preferivo le forme, la loro fissità per me era sinonimo di monotonia mentre io volevo creare degli effetti mutevoli e dinamici. Luce, colore, forme astratte, sí, ma anche movimento continuo, una permutabilità irripetibile,.
Adoperai allora un caleidoscopio contenente pietruzze variopinte di varie dimensioni. Le apposi di fronte all’obiettivo roteandole vicendevolmente nelle due direzioni. Decisi poi di servirmi di filtri colorati per introdurre un altro elemento di variabilità. Collaudai altre modalità per ottenere delle forme pleocroiche astratte che potessero evocare dei dipinti senza tuttavia utilizzare né tela, né acrilico, né vernici. Misi di fronte all’obiettivo tutto quello che potevo trovare in un appartamento ammobiliato preso in affitto: scampoli di stoffe varie, vecchie cravatte, fili di refe multicolori, carta da parati, ritagli di carta colorata e oggetti eterogenei. Tagliai e incollai. I miei due collaboratori italiani approvarono il risultato ed inserimmo questi frammenti nel film.
Nel 1986 dovetti riprendere l’insegnamento per un anno prima di pre-pensionarmi, Per ragioni universitarie dovetti “riallungare” il film ridotto a venti minuti primi. Ce ne volevano adesso 45, cioè la durata approssimativa di un corso, per poter occupare il tempo di un’assenza del professore senza lasciare gli studenti inattivi. Mi vidi perciò costretto a girare altre scene: intervistai Kieu Oanh Nguyen (una mia ex-studentessa vietnamita, la quale era stata anche mia segretaria e che è diventata una grand’amica)., Teresa Tamiyasu (artista nippo-americana e montatrice cinematografica di professione), Franco Albi (un carissimo amico calabrese residente a Portland, purtroppo ora deceduto), nei panni di uno scettico ex-Latin lover. La Tamiyasu divenne la nuova montatrice dell’ennesima versione del film, che arrivò finalmente ai 42 minuti
Nel frattempo, il fedele e generoso amico Maurice Lemaître ottenne per me dal Centre de Créativité di Parig il finanziamento della produzione del film che affidai ad un laboratorio di Hollywood incaricato di produrne tre copie: una per il copyright (Library of Congress), una per la distribuzione in Francia e l’ultima per me.
Ero ben lungi dall’aver però risolto tutte le difficoltà. La prima sorse col laboratorio californiano (Newsfilm) che mi chiese di rifare la striscia dei titoli, rovinatasi nell’infilare la testa della pellicola nella macchina copiatrice. Si perse tempo e mi aiutò Paul Lambert. Le copie del film giunsero appena in tempo prima della mia partenza per la Francia nell’estate del 1986. Maurice Lemaître venne gentilmente ad aspettarmi all’aereoporto di Orly ove transitavo diretto a Nizza. Gli consegnai la copia e lui mi annunciò la buona notizia: aveva stabilito un contratto di distribuzione con Light Cone, prim’ancora che nessuno avesse visto il film, fresco di laboratorio.
Quando arrivai a Nizza mi rivolsi ad un laboratorio locale per trasferire il film dal formato Super 8 a quello video, nei due sistemi europei di allora, per VHS e cioè PAL e SECAM. A questo punto avvenne l’amara scoperta dei numerosi difetti tecnici che ne sconsigliavano qualsiasi proiezione pubblica. Ritenni che né Michel Bizot, né Maurice Lemaître avessero visto il film prima di aggiungere il titolo al catalogo della Light Cone, e io avevo già siglato il contratto di distribuzione. Fortunatamente i proiettori da Super8 erano scomparsi dalla circolazione e perciò nessuno noleggiava piú i film in questo formato. Comunque, per evitare una brutta figura, dovevo controllare se fidarmi del responso del laboratorio di Nizza. Tornato a Portland trasferii il film da Super 8 a video NTSC. Non si erano sbagliati in Costa Azzurra: la copia del sistema americano era altrettanto difettuosa delle due del sistema francese: la pecca proveniva quindi dalla copia su pellicola del laboratorio Newsfilm .
Il mio compito seguente era quello di provare che il laboratorio di Los Angeles aveva rovinato il film copiandolo. Dovetti ricuperare l’originale che si trovava negli archivi della Convenzione dei Diritti d’Autore, a Washington. Non fu facile perché ciò è contro le regole statutarie. Dopo aver spiegato la situazione l’archivista acconsentí. Quest’ultimo controllo rivelò che anche l’originale era difettoso, mentre non lo erano le bobine originali. Il laboratorio di Hollywood era dunque responsabile, ma siccome aveva chiuso i battenti non si poteva piú ottenere un risarcimento.
Lemaître mi suggerí di restaurare l’originale, piano piano e di finanziare l’operazione con eventuali proventi della Avant-Garde Publishers, Producers and Distributors, l’editrice da lui fondata nel 1976 a Portland.
Il tempo passò, avevo altri progetti in corso e questo lo trascurai. Finalmente un bel giorno mi rivolsi ad un vecchio amico, Gary Lacher, che si era pensionato dal suo impiego televisivo e si dedicava ora al restauro di vecchi film e al loro trasferimento su DVD.
Il risultato non poteva essere perfetto ma c’era stato un miglioramento considerevole. Rivedendo il mio filmato apprezzai soprattutto le forme astratte che chiamo ora “cinecaleidogrammi”. Con l’aiuto di Andrew Weymouth, presentatomi da Lex Loeb, ricavai circa 140 immagini separate, non tutte straordinarie, ma alcune delle quali molto belle, che possono essere ingrandite , incorniciate e riprodotte per una serie di cartoline o riprese in un album, oppure fare l’oggetto di una o piú mostre.
Quel che mi piace di piú, oltre all’impatto estetico, è il fatto che la materia prima da me adoperata per creare le immagini è svanita nel nulla (stoffa, caleidoscopio, cravatte, ritagli e oggetti varî). Le sole tracce che rimangono sono quelle impresse sulla pellicola e vengono perciò trasformate , per cosí dire, in oggeti “irreali”.
Affibbiare loro un titolo è stata una sfida vera e propria. Lo sguardo altrui deciderà se l’ho imbroccata giusta o se ho fatto fiasco.
Pietro Ferrua